la Repubblica, 18 maggio 2019
Il folle gioco dei super collezionisti
Che cosa hanno in comune il dipinto di Claude Monet che raffigura dei covoni di fieno, realizzato nel 1890 e venduto da Sotheby’s nell’asta di Impressionisti e Moderni per più di 110 milioni di dollari, e la scultura di Jeff Koons Rabbit, creata quasi un secolo dopo, nel 1986, e venduta da Christie’s per poco più di 91 milioni di dollari? A occhio nudo niente. La prima è una piccola tela unica; l’altra una scultura in quattro esemplari. In realtà, le due opere condividono un’essenziale qualità sul mercato dell’arte. Sono due icone dei rispettivi periodi storici. I covoni di Monet dell’Impressionismo. Il coniglio di Koons dell’arte contemporanea. Entrambi parlano di due diverse forme della cultura popolare, quella contadina e quella del consumismo. Rappresentano la storia dell’arte. Chi se li porta a casa o nel proprio museo ha acquistato non due oggetti, ma due pietre angolari di quell’edificio che è l’arte dai tempi dei graffiti di Lascaux. Non deve quindi sorprendere il prezzo eccessivo, né fare urlare allo scandalo. Da sempre i ricchi e i potenti del mondo hanno gareggiato a chi si accaparrava il tesoro più importante e significativo. Sono queste rare icone a tenere vivo il mercato, oggi altrimenti un po’ traballante. È probabile che i due anonimi che per un soffio non sono riusciti ad aggiudicarsi il Monet e il Koons, avendo risparmiato cento e novanta milioni si siano consolati, comprando altre opere meno appariscenti, ma ugualmente costose.
Le aste confermano in linea di massima che qualità, importanza storica e rarità sono i tre elementi che rendono appetibili le opere in vendita. Altri due fattori più rischiosi e ballerini possono entrare a far parte dei motivi per cui un lavoro è venduto a cifre incomprensibili. Si tratta della speculazione e della moda. Ma il successo di Monet e Koons non rientra in queste categorie. È interessante anche la storia del valore delle due opere. Nel 1986, il Rabbit di Jeff Koons, che ora è diventato l’artista vivente più costoso, veniva mostrato in una piccola galleria dell’East Village di Manhattan e venduto a 2500 dollari. Nello stesso anno, il quadro di Monet veniva battuto all’asta per quella che era considerata una cifra altissima: 2,5 milioni di dollari, mille volte il valore del Koons. In poco più di trent’anni il coniglio ha recuperato molta strada, arrivando con il fiato sul collo del maestro impressionista. Ma anche la storia del valore del Koons è interessante. Nel 1999, il collezionista di Chicago Stefan Edlis regalò il proprio esemplare al museo d’arte contemporanea della città, a patto di poterlo tenere in salotto di tanto in tanto. Lo aveva pagato l’anno precedente 900 mila dollari – cifra considerata assurda per i tempi – comprandolo dal famoso collezionista inglese Charles Saatchi, che pensò di aver trovato il pollo a cui rifilarlo. Vent’anni più tardi e cento volte il valore, l’exploit di Rabbit rende difficile capire chi sia stato davvero il pollo.
Il successo delle aste, che sembra non conoscere tramonto, è dovuto all’istinto primordiale del ricco di scommettere sia sul valore economico delle opere che sul valore artistico e storico. Chi analizza il mercato dell’arte esclusivamente come un mercato di speculazione e cinismo perde di vista l’invisibile e misterioso fascino che l’arte continua a scatenare in chi può permettersi di partecipare a questo costosissimo gioco d’azzardo. Ma perde anche di lungimiranza. Capire quando vendere o quando comprare un capolavoro è un’arte tutta particolare che solo pochi sanno maneggiare. E quando la sanno maneggiare, vedi appunto Charles Saatchi, a volte è un talento a tempo determinato. Le aste di New York raccontano di nuovo, se ce ne fosse bisogno, che non sono i nomi degli artisti a creare il valore, ma le loro specifiche opere. Questo vale persino nel caso di fenomeni incomprensibili come KAWS, che da Phillips ha venduto un suo lavoro per più di cinque milioni. L’opera, pur nella sua inutilità, aveva una sua unicità come quella venduta per 14 milioni a Hong Kong, che però si dice sia stata pagata con due KAWS da sette milioni l’uno. Questo per dire che non sempre i valori raggiunti da alcune opere corrispondono a transazioni monetarie reali. Il mercato delle aste rimane, nonostante tutto, il più eccitante che ci sia. Per questo tutti, anche i detrattori, non riescono proprio a starne alla larga.