il Giornale, 17 maggio 2019
Quanto ci manca Bukowski
«Una signora mi ha accusato di stupro, la puttana». Vorrei conoscere lo scrittore vivente capace di esprimersi in tal modo. So che rimarrà un poco pio desiderio e non mi resta che godere di Taccuino di un allegro ubriacone (Guanda, pagg. 324, euro 18), titolo troppo ovvio per una raccolta di testi per niente ovvi di Charles Bukowski. Sono articoli, prefazioni, interviste del «dirty old man», tutto materiale inedito in Italia, tutta roba destinata a umiliare noi posteri, noi autocensurati, mettendoci di fronte a una libertà di espressione che possiamo soltanto ammirare, giammai imitare. Erano altri tempi? Senza dubbio. Forse erano anche altri pubblici ma innanzitutto erano altri autori. «Il significato di tutte queste stronzate femministe è che le donne vogliono comandare tutto il gioco invece dei soli tre quarti»: Bukowski simili righe le batteva furiosamente a macchina nel 1976 e dunque all’epoca della seconda ondata di manifestazioni, grida e cartelli alzati davanti alla Casa Bianca, contro il potere del maschio. Un altro si sarebbe accodato o avrebbe taciuto, non lui che se fosse nato per il quieto vivere avrebbe continuato a lavorare nell’ufficio postale lasciato a 49 anni per un azzardo potenzialmente letale: la fama o la fame. Dieci anni prima, 1966, era un poeta emarginato e dunque alla ricerca di editori e testate ospitali, tuttavia descriveva così le allora potentissime riviste letterarie: «La maggior parte è pubblicata da giovani depressi cronici o da vecchie lesbiche, e cosa saprà mai questa gente delle Arti?». In America un Premio Strega per fortuna loro non esiste, ma è chiaro che, se esistesse, l’autore di Storie di ordinaria follia non lo avrebbe vinto mai.
Bukowski è morto da un quarto di secolo eppure la necessità di leggerlo continua a crescere, nel mentre la sua fisionomia continua a mutare. Un tempo era il vecchio sporcaccione che esaltava le giovani generazioni con le sue gesta erotico-etiliche, oggi è il libero pensatore che incoraggia gli oppressi di ogni età a dire ciò che pensano, a fregarsene di Christian Raimo, per dire. Mezzo secolo fa il perbenismo voleva regolamentare ciò che avveniva a letto, adesso, ben più pervasivo, ciò che avviene nella mente. Negli States puritani poteva essere problematico scrivere questo: «Le signore preferiscono di gran lunga scoparsi un poeta più di chiunque altro, persino più di un pastore tedesco». Nell’Occidente smidollato, sostituendo Kennedy con Macron o Trudeau o un qualunque altro politico indegno della vostra stima, sarebbe più pericoloso scrivere questo: «C’è qualcosa di molto scoraggiante in Bobby Kennedy ma non vogliamo ammetterlo, non ancora: ma signore, signore, quando arriverà finalmente un vero uomo???». Però torniamo a quell’aprile 1968, lasciamo scritto Bobby Kennedy e rendiamoci conto che Bukowski si permise di attaccare il fratello di un presidente assassinato, il candidato del partito democratico, l’avversario del malvagio Richard Nixon, il politico sostenuto dai pacifisti e dai neri, il difensore dei diritti civili, l’oppositore della guerra in Vietnam... Ma cosa gli era saltato in mente? Troppe birre? Era un comportamento rischioso per chiunque e rischiosissimo per uno scrittore underground con un esecrabile passato di simpatie naziste e un ambiguo presente di fan céliniano... Quel pinguino lesso di Jonathan Franzen non l’avrebbe mai fatto.
Chiaramente c’è del machismo in Bukowski, qualcosa che oggi Michela Murgia definirebbe sessismo. Le scrittrici non gli piacevano, tranne Carson McCullers che guarda caso era molto poco femminile: «C’è chi dice che fosse lesbica. Però era proprio brava. Io mi chiedevo: è stata una donna a scrivere questo?». In un tempo di conformismo ginofilo, Taccuino di un allegro ubriacone è una boccata d’aria. Parlavo di machismo, che il nostro eroe dal ventre prominente condivide con Hemingway, maestro riconosciuto e però stroncato, sebbene a malincuore, quando esce il postumo Isole nella corrente: «Il grande uomo ha pisciato fuori dal vaso».
Secondo Martin Amis le stroncature possono scriverle soltanto i giovani, più in là negli anni non è decoroso, non sta bene: la letteratura come galateo o qualcosa del genere. Bukowski del galateo letterario se ne infischia, stronca Hemingway a cinquant’anni e non è più giovane nemmeno quando seppellisce il poeta John William Corrington, alzi la mano chi lo ha sentito nominare. La recensione, qui a pagina 191, è molto più importante del recensito, è un pezzo di bravura che dimostra quanto contino il soggetto (poco o nulla) e lo stile (quasi tutto o tutto). Bukowski si scaglia contro ogni singola poesia del libro del malcapitato, e poi contro i professori (Corrington era un professore), e poi contro la maggior parte dei poeti, e infine contro la maggior parte degli uomini. Anni dopo, nell’ultima intervista, amplierà il concetto: «Una cosa che non sopporto proprio e alla quale non riesco ad abituarmi è il genere umano». Ubriacone forse, lucidissimo certamente.