Corriere della Sera, 17 maggio 2019
Intervista a Livio Berruti, che compie 80 anni
Livio Berruti, indimenticato oro nei 200 a Roma ‘60, come descriverebbe i suoi primi 80 anni?
«Del tutto inaspettati, come la vittoria nella finale olimpica. Sono arrivati senza che me ne rendessi conto. Ormai ho perso il valore dei numeri».
Come sta?
«Spiritualmente benissimo: ho ancora curiosità, voglia di conoscere e fare. Ho una gamba che, per l’artrosi, non funziona più molto bene: cammino con due bastoni. Non sono più bi-turbo, sono bi-bastone».
Come festeggerà domenica?
«Con una festa con 400 invitati, organizzata dall’Isef di Torino. Ottolina, Ottoz, Ormezzano... Tutti dinosauri dei miei tempi».
80 anni. Come li riassumerebbe in 20”5, il tempo che le valse l’oro?
«Una gara di slanci continui e appagamento di curiosità, una successione di momenti felici e infelici che non hanno inciso sul mio ottimismo di fondo. Diciamo che sono sempre rimasto un volteriano».
80 anni di interviste. La migliore?
«Quella di Mario Soldati in un programma della Rai del ‘61, non le so dire quale. Eravamo io e Mina, donna di fascino discreto, tranquillo».
Come Wilma Rudolph, la pantera americana dello sprint con cui ebbe un flirt a Roma ‘60.
«Sex appeal simile, ha ragione. Per me le fanciulle non devono essere troppo prorompenti: la bellezza va scoperta per gradi».
Quella passeggiata mano nella mano per il villaggio olimpico, con Muhammad Ali che cerca Wilma, è rimasta leggendaria.
«Pura estasi. Ero abbagliato dalla gioia che sprizzavano i suoi occhi e dal piacere di stare insieme. Non ci rendemmo conto, allora, che un ragazzo bianco e una ragazza di colore per mano erano anche un potente messaggio politico».
Ma sua moglie Silvia, dopo quasi sessant’anni di aneddoti su lei e Wilma, non è gelosa?
«Noooo... Sa che il finale è stato molto platonico».
Oltre ai ricordi, ha conservato qualche oggetto dell’Olimpiade ‘60?
«Solo la maglia della Nazionale. La tuta mi fu rubata un mese dopo, a Milano. Gli occhiali da sole indossati nei 200 li ho donati a Telethon e sono stati comprati da Alberto Bolaffi. La sciarpa è nel comune di Stroppiana, il paese dei miei genitori».
E la medaglia d’oro?
«Ah quella è in banca a Torino, nella cassetta di sicurezza. A furia di maneggiarla la patina d’oro si è scolorita e il collare di foglie di lauro bronzee ha perso i pezzi. Ma è sempre bellissima».
Come spese il milione e 200 mila lire del premio?
«Comprai una Giulietta Sprint, l’auto sportiva per eccellenza ai miei tempi. Costava molto: alla fine ci ho rimesso io!».
Oggi un oro olimpico vale di più: farebbe cambio, Livio?
«Guai. Oggi lo sport ha perso naturalezza, semplicità, libertà: i nostri valori. Eravamo meno assediati: il giornalismo era un mondo amico, oggi avverto la curiosità morbosa di sapere tutto. Vedo atleti costretti a recitare. Per fortuna qualcuno mantiene ancora l’autenticità».
Allude al suo amico Filippo Tortu, recordman italiano sui 100 (9”99) battendo Mennea?
«Filippo fa 21 anni a giugno, come me quando vinsi l’oro: potrebbe essere uno sprinter dei miei tempi e ha una famiglia splendida che non lo esibisce come un trofeo».
Ricordiamo sempre Roma ‘60 ma ha partecipato anche a Tokyo ‘64 e Città del Messico ‘68.
«In Giappone fui quinto nei 200, gli ultimi corsi sulla terra battuta prima dell’avvento del tartan. Ottolina, con cui ci facevamo scherzi terribili, mi provocò: Livio, ormai sei finito! In finale non vinsi, ma mi presi la soddisfazione di batterlo. In Messico arrivai da campione italiano: 20”7 a Trieste, sulla terra. Pensavo, sul tartan olimpico, di valere almeno 20”. Invece ebbi una crisi di altura in ritardo: il senso di spossatezza e l’incapacità di concentrazione mi fregarono. Fuori nei quarti di finale».
La memoria più cara in assoluto.
«Bruxelles, 1961. Oro al Mondiale militare nello stadio dell’Heysel, che diventerà tristemente noto. Mi viene incontro un anziano, che mi bacia le mani e mi ringrazia. È un vecchio emigrato che con il mio successo si era sentito riscattato dalle angherie che subiva come italiano all’estero. Nel raccontarglielo mi commuovo ancora».
La rivalità con Pietro Mennea. Non è mai stato tenero con l’erede, Berruti.
«Tra noi c’erano differenze abissali. Gli riconosco la capacità di perseverare nella sofferenza, ma secondo me un ego spropositato gli ha impedito di vivere lo sport con il sorriso. La verità è che il successo non ci appartiene: è merito dei geni di mamma e papà».
Geni buoni. Felici prossimi 80 anni, caro Livio.
«Grazie. Ho cercato di essere me stesso e di rappresentare il mio mondo in modo sano e con i piedi per terra. La mia natura sabauda mi ha sempre impedito di essere troppo aulico».