la Repubblica, 17 maggio 2019
Dove cambia il clima del mondo
NY-ÅLESUND (ARCIPELAGO DELLE SVALBARD) — Spegnete il cellulare, voi che arrivate nell’insediamento umano più a Nord del pianeta. Affisso nel piccolo aeroporto di Ny-Ålesund, l’invito è perentorio e la spiegazione semplice: le onde emesse dai telefonini rischiano di interferire con le sofisticate strumentazioni necessarie al centinaio di ricercatori di 50 diverse nazionalità che vive a queste latitudini estreme. Infatti, è in questo lillipuziano villaggio scientifico, a poco più di mille chilometri dal Polo Nord, e dove il sole sorto a metà aprile tramonterà soltanto a fine agosto, che si possono osservare le conseguenze più brutali del cambio climatico. Già, perché è l’Artico la regione del globo che si riscalda di più. Basti dire che negli ultimi 10 anni la temperatura dell’aria alle isole Svalbard è aumentata fino a +10°C e che ogni mese si continuano a registrare valori record. «Ora è proprio l’integrazione delle misure effettuate in questo luogo incontaminato che ci permette di capire che cosa accadrà a livello globale», spiega Angelo Viola, 64 anni, di Gaeta, fisico dell’atmosfera del Cnr, che coordina le attività scientifiche della base artica “Dirigibile Italia”, chiamata così in onore della sfortunata spedizione guidata dal generale Umberto Nobile, che nel 1928 partì proprio da qui.
Da Longyearbyen, capoluogo dell’arcipelago dove oltre alla chiesa, all’università e all’ufficio postale più settentrionali al mondo, si contano anche 2mila abitanti e circa 3mila orsi bianchi, decolla due volte la settimana un aereo a elica verso Ny-Ålesund. La quarantina di edifici, per lo più di legno, che costituisce quest’avamposto della ricerca sullo scioglimento del pack affaccia sulla Baia del Re, dove ancora si erge il pilone d’attracco del dirigibile Italia, il quale dopo aver sorvolato il Polo s’inabissò in mare. Ma a Ny-Ålesund svetta anche un’altra torre, vanto della nostra presenza in Artico: la Climate change tower, alta 34 metri, che consente di misurare le caratteristiche e la dinamica dell’atmosfera a contatto con il suolo. «Sulla torre sono installati anche strumenti che ci permettono di capire i processi che contribuiscono al funzionamento del sistema climatico e alle sue modificazioni», dice Viola.
I dati registrati prefigurano un avvenire apocalittico, poiché s’allunga la stagione più calda, con la neve che scompare settimane prima del solito e con i ghiacciai che regrediscono mezzo metro l’anno. Con lo scioglimento del ghiaccio marino, la superficie bianca che riflette i raggi solari è sostituita da quella scura dell’oceano Artico, che invece assorbe maggiore calore. Lo stesso accade sulla terra ferma, con la neve che scompare all’inizio della primavera, immagazzinando al suolo più energia solare. «Dal 2008, ho io stesso assistito al drammatico arretramento dei ghiacciai nella baia, le cui acque, da dieci anni, non gelano più neanche in inverno», racconta Emiliano Liberatori, logista della base italiana. È lui che protegge dagli orsi bianchi gli scienziati sul terreno. «Attorno a Ny-Ålesund, sono sempre più numerosi, anche a causa della riduzione del ghiaccio marino che li spinge sulla terra alla ricerca di cibo. Perciò, ogni volta che ci allontaniamo dal villaggio, siamo costretti a portare con noi una carabina, anche se a spaventarli è spesso sufficiente il rumore della motoslitta». Altrimenti si spara in aria, ma se non basta devi mirare al cuore. C’è un altro accorgimento: mai chiudere le case a chiave, per potervi entrare nell’eventualità di un incontro con l’orso.
Di feroci plantigradi, Laura Caiazzo, 36 anni, napoletana, al suo quarto soggiorno alla base, ne ha visti parecchi. «Soprattutto d’estate, quando nidificano le sterne e le oche artiche. Non riuscendo più cacciare la foca, perché ci sono sempre meno iceberg dove farlo, l’orso deve ormai nutrirsi delle uova degli uccelli migratori», dice la ricercatrice. Analizzando i campioni dell’aria che arriva fin quassù, la Caiazzo ha individuato diversi elementi inquinanti che provengono dalle medie latitudini. Trascinati dai venti o dalle correnti marine, gli stessi veleni sono presenti anche nel grasso della fauna. Quando il cibo scarseggia, gli animali bruciano i tessuti adiposi e queste molecole entrano in circolo danneggiando gravemente gli organi vitali.
Se la stazione scientifica norvegese di Ny-Ålesund è la più imponente e la più popolosa, quella cinese, con i due grandi leoni di pietra al suo ingresso, è senz’altro la più caratteristica. In un luogo così remoto è la condivisione delle infrastrutture, quali la mensa o l’aeroporto, ad abbassare significativamente i costi di una base per la ricerca polare, senza contare il valore aggiunto di una tale promiscuità di scienziati, che facilitare la cooperazione nei diversi progetti di studio. C’è anche un pub nel villaggio, che apre il sabato sera, ma la vita sociale è legata ai pasti, serviti tre volte al giorno alla mensa comune, anche per impedire l’isolamento dei ricercatori, soprattutto d’inverno, quando rimane, sì e no, una ventina di persone. «Che cosa si mangia? Pasta stracotta, poche verdure e tanto salmone», si lamenta la ricercatrice napoletana.
Le conseguenze del surriscaldamento artico sono molteplici, e non riguardano soltanto la scomparsa di una specie di merluzzo che non trova più rifugio sotto il ghiaccio perché scompare il pack, o la decimazione delle renne che non riescono più a nutrirsi perché con l’alternarsi di pioggia e di freddo intenso gli arbusti che una volta scovavano sotto la neve sono adesso imprigionati nel gelo. Da qualche anno, per studiarne gli effetti, e se possibile prevenirli, la comunità scientifica di Ny-Ålesund è in crescita, perché questo luogo offre il doloroso privilegio di osservare la repentina distruzione dell’ecosistema polare. Che è fatto di balene, narvali, volpi artiche, orsi bianchi ma anche di straordinari uccelli marini, come l’ormai rarissimo gabbiano d’avorio.