Professore, che Paese è l’Italia vista dalla scrivania di presidente Istat?
«Un Paese che ha subito una pesante fase di crisi e che sta, faticosamente ma tenacemente, cercando di uscirne. L’economia offre qualche segnale confortante, però servono conferme. Auguriamoci che il miglioramento sul piano economico porti con sé anche un cambiamento favorevole sul piano demografico».
Parla di segnali confortanti, ma intanto su Pil e lavoro siamo ai margini dell’Europa.
«È vero, un gap di crescita significativo c’è da molti anni. Dopo la crisi, le aspettative delle famiglie non si sono completamente riprese, anche per la difficoltà di attuare politiche di rilancio in presenza di un debito pubblico elevato. È il proverbiale cane che si morde la coda: il basso livello dei consumi delle famiglie lascia capacità produttiva "disoccupata", quindi un freno a investimenti e crescita della produttività. Ma pesano anche gli aspetti strutturali: frammentazione dell’apparato produttivo; divaricazione tra un manifatturiero che, seppure a costo di una dolorosa ristrutturazione, ha mantenuto competitività e crescita, e un terziario stagnante; carenze infrastrutturali; bassa efficienza dell’apparato amministrativo; economia sommersa; debolezza del sistema formativo».
Una questione anche "statistica" cavalcata dalla politica è l’immigrazione. Insomma la diatriba tra i 500 mila e i 90 mila immigrati irregolari. È possibile chiarirla una volta per tutte?
«Certo, a patto che chi riferisce e chi legge i dati lo faccia in modo oggettivo e senza tesi precostituite. Il numero di stranieri privi di titolo di soggiorno valido, era stimato in 533 mila a inizio 2018 ed è verosimile che sia cresciuto durante lo scorso anno, soprattutto per i dinieghi nella concessione dello status di rifugiato. Ma questi numeri misurano a quanto ammonta il totale degli irregolari. I 90 mila di cui si è parlato sono un altro tipo di dato: il calcolo della crescita degli irregolari imputabile all’effetto degli sbarchi avvenuti a partire dal 2015, quando il totale degli irregolari, al primo gennaio, era di 404 mila. Dunque, se si considera che alla crescita dello stock d’irregolari hanno contribuito anche elementi diversi dagli sbarchi, come i permessi scaduti o gli arrivi per altre vie, direi che i conti tornano».
Proprio numeri alla mano, l’immigrazione non sembra un’emergenza reale. Non crede?
«Di per sé l’immigrazione è un fenomeno naturale nelle società aperte. Occorre tenere conto di quali numeri si stia parlando in termini di flussi e di contesto. Quando c’è ricchezza, benessere e posti di lavoro in abbondanza, l’immigrazione è un importante contributo alla società. Quando invece le cose non vanno bene, la presenza di flussi consistenti può diventare un fattore destabilizzante».
Mi permetta di capovolgere il punto di vista: di fronte al calo demografico italiano, l’immigrazione è una risorsa…
«La giovane immigrazione lo è di sicuro, seppur con le avvertenze di ordine quantitativo: la sostenibilità dei flussi che si aggiungono non va ignorata o sottovalutata. Peraltro anche i giovani immigrati, prima o poi, invecchiano. Comunque nel 2017 sono stati circa 99 mila i nati da almeno un genitore straniero, pari al 21%. È la prima volta sotto 100 mila dal 2012».
È moralmente accettabile la distinzione tra migranti economici e quelli spinti da guerre e persecuzioni?
«Diverse motivazioni sono un dato di fatto. Le due categorie esistono: semmai, ove vi siano posti limitati, può avere senso stabilire delle priorità rispetto all’accettazione.
Insomma, ancora una volta, è una questione di numeri».
C’è un’emergenza sicurezza o è solo una percezione distorta, alimentata anche dalla politica?
«Sentirsi sicuri è un bisogno irrinunciabile e lo sarà sempre di più in una società, come la nostra, che invecchia progressivamente. Non mi sorprende considerarlo un bisogno importante cui dare risposta da parte della politica. Quanto al fatto se la sicurezza sia, o meno, un problema reale, guardando le statistiche possiamo affermare che forse è meno drammatico rispetto al passato. Ma non dimentichiamo che c’è chi, e non sono pochi, continua a subirel’oltraggio della criminalità nelle sue molteplici espressioni. Il bene della sicurezza è ancora a rischio e va presidiato da chi ha i mezzi e il compito istituzionale di farlo».
Che idea si è fatto dell’efficacia del Reddito di cittadinanza?
«Il Reddito di cittadinanza si configura come una misura di contrasto alla povertà assoluta che, tuttavia, nella sua definizione operativa e applicazione, si riferisce ad una platea in parte diversa da quella misurata dall’Istat. Inoltre, i dati effettivi al momento disponibili non consentono ancora una seria analisi degli effetti della legge, anche se il trend delle domande finora presentate e accettate appare meno dinamico rispetto alle attese. Le simulazioni effettuate dall’Istat prima della sua entrata in vigore hanno stimato che il beneficio potrebbe interessare un milione 308 mila famiglie e due milioni e 706 mila individui. E che circa 400 mila individui attualmente inattivi potrebbero transitare nell’offerta effettiva di lavoro sulla base di quanto disposto dal provvedimento».
Il Reddito di cittadinanza può incentivare assistenzialismo e lavoro nero. È così?
«Ogni volta che si punta a un obiettivo c’è sempre il rischio di non raggiungerlo. Il risultato del farmaco dipende da come reagisce l’organismo. Non è escluso che ci possano essere effetti indesiderati, speriamo che siano modesti e che si possano contrastare, magari con correttivi in itinere».
Ancora il lavoro: qual è il primo bilancio del decreto Dignità?
«Una valutazione indiretta può derivare dall’analisi delle dinamiche dell’occupazione dipendente per tipologia contrattuale, anche se nel corso del 2018 e nei primi mesi del 2019 l’andamento ciclico dell’economia - prima in rallentamento, poi in flessione e recentemente in ripresa - ha condizionato le dinamiche del mercato del lavoro, interagendo con i provvedimenti messi in campo dal governo. Comunque, i dati mostrano che tra luglio 2018 e marzo 2019 l’occupazione dipendente permanente è aumentata di poco meno di 100 mila unità, mentre quella a tempo determinato è diminuita di 26 mila unità».
Le misure che anticipano le uscite per pensionamento possono favorire la staffetta generazionale nel mercato del lavoro?
«Un posto di lavoro lasciato, se funzionale e non sostituibile con cambiamenti tecnologici, dovrebbe necessariamente trovare rimpiazzo. Ma si tratta ancora una volta di questione di numeri. Tra breve avremo un quadro chiaro».