La Stampa, 17 maggio 2019
La vedova contro Apple
È una bella storia quella della vedova contro il gigante Apple. Tre anni di battaglia giudiziaria per sbloccare l’iPhone del marito suicida, pieno di foto e video della loro bimba.
Ci piace vederla come vittoria dell’amore sulla spietata tecnologia e se vogliamo lasciarci condizionare dal sentimento convinciamoci pure che la donna inglese Rachel Thompson abbia lecitamente preteso di avere la password dello smartphone del defunto marito Matt, dove erano archiviati ben 4500 foto e 900 video della figlioletta di sei anni; sicuramente però non c’erano solo quelle.
Dal punto di vista della nostra evoluzione digitale però non sembra esattamente una bella notizia, è la dimostrazione che ancora stiamo vivendo una fase di transizione molto confusa, in cui non sono a tutti ben chiari il valore della nostra ombra digitale e il diritto a disporne a nostro piacimento.
Per ombra digitale intendiamo ogni frame della nostra vita salvato all’oblio, tutto quello che archiviamo, di pensiero e azioni, in una memoria fisica esterna al nostro cervello.
Il vero problema è che ancora non esistono regole precise che stabiliscano come trasferire post mortem questo patrimonio immateriale. Di sicuro accumuliamo un racconto consistente di noi, sia nei server dei social network, come nelle memorie dei nostri device personali. Non ci poniamo ancora il problema di come potranno disporne i posteri, o semplicemente non lo collochiamo tra le nostre proprietà, come accade per una casa o un gioiello.
Eppure in quel codice è scritta tutta la nostra vita, il nostro tempo pubblico come quello privato, a volte lecitamente segreto perché intimo.
Quell’uomo, prima di uccidersi, non aveva espresso, con inequivocabile chiarezza, il suo desiderio di lasciare il contenuto del suo smartphone alla moglie. Telefono che, in questo caso, va inteso nella sua funzione di backup della propria vita, non solo professionale ma soprattutto emotiva, affettiva e relazionale. Tra questi file alcuni probabilmente contenevano anche parte delle ragioni profonde del suo suicidio, che lui non ha ritenuto di voler condividere con chi sarebbe sopravvissuto alla sua scelta di morire.
Chi ha emesso la sentenza ha pensato invece che dovesse prevalere il diritto della signora di mettere comunque il naso nella cassaforte della vita privata del marito. Un precedente che dovrebbe stimolarci a considerare il nostro patrimonio di vita digitalizzata come un bene da classificare con grande attenzione, già al momento del salvataggio di ogni documento.
E’ importante costruire il data base su cui archiviare le nostre vite. Alcune parti potrebbero essere lasciate in eredità ai familiari, altre agli amici, altre agli amori in genere, estinti, clandestini, dicibili o inconfessabili che siano. Altre parti ancora rese pubbliche, se pensiamo possano raccontare la storia dei nostri anni.
Senza che nessuno ci neghi mai però il diritto di avere la certezza che la parte del nostro vissuto che non vorremmo mai condividere, possa serenamente seguirci nel comune destino di essere cancellati dal mondo.