Il Messaggero, 17 maggio 2019
Nel fortino di Huawei a Shenzhen
SHENZHEN «Mio nonno racconta che qui c’erano una manciata di case e pochi pescatori, eppure guarda ora? A Shenzhen ci sono 13 milioni di persone, il quarto edificio più alto del mondo e ogni cosa è possibile». Huan ha 33 anni e diverse esperienze come manager di multinazionali. Da poco ha aperto una sua azienda di logistica e sembra entusiasta di come Shenzhen, nel sud della Cina, in pochi anni sia diventata la «città più connessa del mondo». Ma soprattutto di come sia riuscita a trasformarsi nella terra dei sogni dei giovani cinesi. «Tutti vogliono lavorare qui, studenti e aziende» dice.
IL CENTRO
Shenzhen infatti, si è trasformata nella Silicon Valley d’Oriente. La base operativa da cui le aziende tecnologiche cinesi cercano di scalare i mercati globali. Su tutte Huawei, fondata qui nel 1987 dall’ex ufficiale dell’esercito popolare cinese Ren Zhengfei, e arrivata a fatturare 105,2 miliardi di dollari nel 2018. E proprio a mezz’ora dal centro di Shenzhen, a Dongguan, il colosso ha da poco inaugurato una nuova sede. Un quartier generale da 1,3 miliardi di euro e 1,4 milioni di metri quadrati che ospita il centro di ricerca e sviluppo. Il cuore pulsante di Huawei dove, ogni mattina, si recano oltre 25mila lavoratori.
Niente acciaio e vetro però, né grattacieli futuristici. A dominare il campus bassi edifici in mattoni in stile classico che replicano alcuni quartieri di città europee. Parigi, Verona, Friburgo ma anche Borgogna, Oxford e Bologna: 12 mini cittadine che ospitano uffici, aree ristoro, supermercati, laghetti e tanto verde. Tutto sembra molto distante dal trambusto della metropoli e dalle polemiche sul bando imposto da Donald Trump all’azienda.
Non per tutti però. «Quello che vedi non è solo un omaggio all’Europa – spiega uno di quei dipendenti sorridenti – è anche un messaggio agli Usa: il nostro punto di riferimento non siete voi». L’incredibile ascesa infatti, non ha portato solo gloria e incassi da record all’azienda ma anche nemici giurati come Donald Trump. Dopo l’arresto a dicembre di Meng Wanzhou, figlia di Zhengfei e direttrice finanziaria del gruppo, ieri il Tycoon ha attaccato nuovamente Huawei impedendogli – insieme all’altra azienda tech di base a Shenzhen, Zte – di acquistare tecnologia statunitense se non previa autorizzazione, nonché di vendere e installare le proprie infrastrutture nel Paese americano.
Una decisione che non ha colto di sorpresa i cinesi. «Ci aspettiamo altre mosse» diceva mercoledì sera, appena poche ore prima del comunicato della Casa Bianca, un funzionario di Huawei. Ma le «ingerenze da parte di Pechino» paventate da Trump «non possono esistere» anche perché «l’azienda è di proprietà dei lavoratori e non risponde al governo».
IDENTIKIT
Huawei è una società privata non quotata in borsa di cui il patron Zhengfei detiene solo l’1.4% delle azioni. La restante parte è nelle mani di quella che viene definita l’Unione, ovvero tutti i dipendenti che lavorano in Cina. E ancora, continua, gli Usa «non hanno prove» per le loro accuse, si tratta «solo di una questione politica» nascosta dietro la cybersicurezza. Ma dopo anni attacchi, qualcosa sembra si stia smuovendo come dimostrano le resistenze di Italia, Germania e molti altri Paesi. «Le persone ormai lo hanno capito. E poi noi non siamo Amazon, non facciamo affari con i dati raccolti dagli utenti». A parlare, in un’elegante saletta privata del quartier generale di Huawei, è Joe So, responsabile del lato tecnologico. «Siamo interessati solo a vendere dispositivi – continua in riferimento a smart cities e 5G – forniamo l’infrastruttura, poi sono i clienti e i partner locali a decidere come manipolare i dati raccolti». Nessun pericolo per la sicurezza, anzi. «Abbiamo centri sviluppo in tutti i Paesi e ne apriremo ancora nei prossimi mesi. Uno anche a Roma» dice. Poco importa se Trump è d’accordo o meno.