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 2019  maggio 16 Giovedì calendario

Raffaele Cantone: «Una parte del Paese vuole convivere con le tangenti»


Raffaele Cantone, magiatrato e presidente dell’Anac, è nato a Napoli.

Il presidente dell’Anac: “Nell’imprenditoria e nella politica torna una cultura che considera l’Anticorruzione un ostacolo. Ma anche la mafia usa le mazzette” roma – Anche ieri Matteo Salvini se l’è presa con lui: «Basta con i paletti, dopo un po’ le imprese chiudono». Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità anticorruzione Anac, si è abituato agli attacchi. Il bollettino delle indagini segnala tangenti a Milano, Roma, Salerno, Palermo. Il governo invece sembra interessato soprattutto a limitare i poteri di vigilanza. «Non credo che il ministro voglia imputare qualcosa all’Anac. Il fatto che le imprese chiudano preoccupa anche me. C’entrano, però, poco i controlli. I dati dimostrano che gli appalti sono aumentati, a fermare i cantieri è altro…». Perché tanti ce l’hanno con Anac? «Non l’ho capito. Credo sia stata fatta passare l’idea che l’Anticorruzione aumenti il peso della burocrazia. Quando domando “Perché?”, non mi danno risposte o mi indicano cose che non dipendono da noi. Però così si diffonde il concetto che il problema non sono le tangenti ma l’anticorruzione, come Autorità e come movimento di pensiero. E questo viene usato strumentalmente da chi vuole le mani libere, ma soltanto sui fondi pubblici. Mi chiedo, ad esempio, se un imprenditore privato affiderebbe un contratto solo sulla base di tre preventivi – come oggi prevede lo “Sbloccacantieri” – senza verificare quali siano le offerte migliori sul mercato». In questa legislatura, tra misure come lo “Sbloccacantieri” e dichiarazioni come quella dell’allora sottosegretario Armando Siri – che paragonava l’Anac a una malattia – la corruzione sembra sia diventata un problema secondario. «Voglio essere ottimista e fermarmi ai fatti; il Parlamento ha approvato una legge molto rigorosa in materia. Certo mi preoccupa in certi ragionamenti l’idea che le regole non siano considerate un meccanismo utile per lo sviluppo di una normale società democratica, ma un impedimento. Un messaggio lanciato non solo da una parte della politica ma anche dell’imprenditoria e delle associazioni professionali. La stessa impostazione culturale l’abbiamo vista all’opera con la deregulation del 2001 e le tante semplificazioni proposte negli anni che non hanno né risolto la lentezza dei cantieri né tantomeno evitato la corruzione, anzi purtroppo l’hanno amplificata». Una parte della società italiana preferisce convivere con le tangenti? «Nel dibattito politico e imprenditoriale sempre più spesso la modalità del fare viene considerata prevalente sul come si fa. Rischia di passare la suggestione, già teorizzata in passato, che con certi sistemi di malaffare si possa convivere. E questa cultura del fare a tutti i costi giustifica il ruolo dei “facilitatori”, quelle figure che per superare un problema non mettono in campo soprattutto il bagaglio di relazioni e spesso di rapporti illeciti». È il ritratto che i pm fanno di Franco Arata, accusato di avere corrotto Siri. E pure nell’inchiesta di Milano ci sono “i burattinai” pregiudicati o i “suggeritori” condannati per Mani Pulite. «C’è un pendolo degli umori del Paese. Lo abbiamo superato nel caso della criminalità organizzata, perché oggi è difficile che un soggetto condannato per mafia possa essere riciclato. Invece tutto sommato nessuno si scandalizza se una persona pregiudicata per corruzione continua a fare le stesse cose. E nelle ultime indagini c’è un preoccupante elemento comune: la presenza della criminalità organizzata. Resta all’esterno, ma qualcuno all’interno del sistema si fa portatore degli interessi delle mafie». I capitali mafiosi sono immensi e invisibili. E infiltrano sempre di più l’economia del Paese proprio attraverso la corruzione. «Questo è certamente un rischio. Grazie a questi “facilitatori”, che si muovono borderline in vari mondi, il denaro delle mafie entra nell’economia attraverso un canale che spesso è difficile ostacolare con gli strumenti antimafia. Perché non usano l’intimidazione e la violenza tipiche dei boss, ma le bustarelle. La presenza sempre più massiccia della criminalità organizzata nell’economia si intuisce dall’aumento delle interdittive antimafia. Crescono di anno in anno, anche per una maggiore attenzione delle prefetture del Nord, lì dove prosperano gli investimenti. L’ultimo episodio è quello dell’impresa che operava nella demolizione del Ponte di Genova: e pensare che nel decreto originario non erano previsti i controlli antimafia, inseriti dopo una nostra segnalazione in Parlamento». Le tangenti contestate in queste indagini non vanno ai partiti ma a singoli politici. È un’altra evoluzione. Dove può portare? «I partiti ormai sono organizzazioni composte da singoli gruppi autonomi, che usano finanziamenti leciti o meno leciti ma sempre opachi. Così si determina quello che il presidente Mattarella ha indicato come “furto di democrazia”. In un sistema in cui è venuto meno il finanziamento pubblico e nel quale le sovvenzioni private trovano limiti, perché il 2 per mille è un fallimento e molti imprenditori preferiscono non comparire, con le tangenti si possono scalare partiti ed enti pubblici». Lei è tra quelli che cominciano a pensare che il finanziamento pubblico fosse il male minore? «Lo penso da tempo. Ma a condizioni di dire con chiarezza che il finanziamento pubblico nella Prima Repubblica era davvero organizzato malissimo. Perché non c’era nessun meccanismo reale di controllo su come venivano concessi e utilizzati i soldi. Impossibile essere nostalgici di quei metodi, io sono per un finanziamento pubblico corretto, ridotto negli importi e oggettivamente controllato nelle entrate e soprattutto nelle uscite».