La Stampa, 14 maggio 2019
Le tentazioni della carne
Per quanto certi libri sulle diete cerchino di convincervi del contrario, Madre Natura è stata oltremodo premurosa nel suo piano alimentare per questa scimmia chiamata homo Sapiens. Gli altri grandi primati, come i gorilla e gli oranghi, sono vegetariani, benché, se capita, alcuni scimpanzé non disdegnino un assaggio di altre scimmie.
L’evoluzione ha etichettato le nostre specie come «onnivore», lasciandoci liberi di decidere cosa preferiamo: il modo in cui interpretare questa eredità evoluzionistica così permissiva è solo una questione di cultura, scelte e un po’ di genetica. Una volta soddisfatto il fabbisogno nutrizionale di proteine, calorie, minerali e fibre alimentari, è possibile vivere una vita sana sia da vegetariani, come gli indù e i buddisti fanno da millenni, sia nutrendosi prevalentemente di carne, come nella tradizione inuit. Paragonata a quella di tutte le altre specie, la varietà della dieta umana è unica e questo è dovuto in parte al fatto che l’uomo vive pressoché ovunque e si ciba di qualunque cosa sia disponibile. Mangiamo 7 mila specie di piante e lo stesso vale per le specie animali che, pur se in numero inferiore, sono migliaia.
I nostri antenati primati erano quasi sicuramente vegetariani come gli attuali cugini tra le grandi scimmie: quand’è, dunque, che l’evoluzione ha deciso di darci carta bianca per passare alla carne? La risposta arriva da due fonti: l’albero genealogico e le prove fossili. I rami dell’albero genealogico convergono man mano che ci si avvicina alle radici e mostrano antenati comuni, quando le ramificazioni si uniscono: l’antenato che noi umani e le scimmie condividiamo è vissuto circa 5 milioni di anni fa. Non sappiamo di cosa si nutrisse, ma l’ipotesi è che fosse per lo più o del tutto vegetariano. Quindi, se 5 milioni di anni fa è il primo estremo, il più lontano nel tempo, dell’inizio dell’evoluzione dei nostri antenati da vegetariani a onnivori, quando possiamo fissare l’altro estremo, entro il quale tale processo dovrebbe aver avuto termine? A fornirci un indizio è Lucy: il primo scheletro fossile, di sesso femminile, di un progenitore dell’uomo capace di camminare in posizione eretta. Apparteneva alla specie australophitecus Afarensis, vissuta in Africa tra i 3 e i 4 milioni di anni fa e ritenuta l’antenato più prossimo della nostra, il Sapiens.
La prima prova del fatto che Lucy e la sua specie mangiassero carne è giunta dalla scoperta di ossa di mucca risalenti a 3,39 milioni di anni fa e intaccate da segni compatibili con una lama in pietra. Gli scettici si domandarono: «Se questo è un esempio di macellazione, dove sono gli strumenti?». Cinque anni dopo, ecco spuntare questa prova, in un altro sito dell’Africa orientale: qui, 3,3 milioni di anni fa, qualcuno realizzava lame rudimentali, scheggiando la pietra, per scopi più che evidenti. A quell’epoca non c’erano esemplari di Sapiens e quindi doveva trattarsi di un antenato e l’ipotesi più probabile è che fosse proprio un australophitecus Afarensis: se Lucy, quindi, non era vegetariana, significa che, come suoi discendenti, gli uomini (tutte le specie di homo) sono sempre stati onnivori.
In quanto umani, l’evoluzione ci ha equipaggiati per mangiare carne, lasciandoci però ampia facoltà di deciderne la quantità; in quanto mammiferi, invece, abbiamo ereditato un retaggio più antico e inflessibile: il latte. Possiamo dire che il latte materno sia l’unico cibo che l’evoluzione abbia deciso di farci consumare, benché la prescrizione si scontri con un paradosso: due terzi degli adulti non possono bere latte, perché intolleranti al lattosio. È quanto meno singolare che la maggior parte degli adulti non sia in grado di digerire questo cibo «ancestrale». La spiegazione è semplice: i neonati producono un enzima chiamato lattasi che consente di digerire il lattosio, ma tale enzima in genere si disattiva con la maturità.
Ci sono due alternative per ovviare al problema: la prima, inventata in Anatolia 10 mila anni fa, quando i primi contadini iniziarono a produrre latticini, consiste nell’aspettare che i batteri consumino il lattosio, trasformando il latte in caglio, formaggio e yoghurt. I discendenti di quei primi agricoltori, che ancora oggi vivono in Anatolia, sono comunque intolleranti al lattosio. La seconda scappatoia, che consente alle persone di mangiare latticini e bere latte, ce l’ha fornita l’evoluzione stessa: 7 mila anni fa si verificò, in alcuni gruppi di contadini nell’Europa centrale, una mutazione genetica per cui l’enzima della lattasi non si disattivava al termine dell’infanzia. Gli individui portatori di quella mutazione a favore della persistenza della lattasi erano quindi in grado di bere latte senza problemi.
La mutazione si è rivelata di tale vantaggio che i portatori si sono moltiplicati tra i coltivatori, man mano che si espandevano attraverso l’Europa settentrionale, determinando l’evento evoluzionistico di più rapida diffusione nella storia della nostra specie. Oggi il 90% degli abitanti del Nord Europa, e un’analoga maggioranza in Nord America, di discendenza europea, è capace di tollerare il lattosio anche in età adulta. E si sono registrate anche altre mutazioni di effetto simile, con un’evoluzione indipendente, nelle diverse culture nelle quali sono presenti produzioni casearie: nell’Africa occidentale e orientale, in Pakistan e Arabia Saudita, dove si beve latte di cammello.
Tutto ciò che mangiamo è frutto di un’evoluzione, ma, come testimoniato in modo diverso dalla carne e dal latte, non si tratta quasi mai di proibizioni: la biologia ci fornisce tutti gli ingredienti possibili per la nostra dieta e poi la cultura scrive il menù.
(Traduzione di Silvia Crupano)