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 2019  maggio 14 Martedì calendario

Intervista a Roberto Mancini

Sostiene Roberto Mancini che nel suo primo anno da commissario tecnico il rinnovamento dell’Italia sia stato più veloce di quanto immaginasse. Il 14 maggio 2018 accorreva al capezzale di una Nazionale ancora ferita dal Mondiale mancato. Dodici mesi dopo ha lo sguardo sull’Europeo 2020 che parte da Roma. « A 30 anni dalle Notti Magiche: sarebbe bello riproporre la canzone meravigliosa di Bennato e Nannini».
Cosa chiede a questa Nazionale?
«Deve risollevarsi, fare innamorare di nuovo la gente».
In quale altro rinascimento azzurro si rivede?
«Nel dopo Corea 1966. Speriamo che le cose vadano altrettanto bene».
Un Europeo, un secondo posto mondiale, Valcareggi ct per 8 anni. E il suo orizzonte, invece?
«Io voglio vincere subito. All’Europeo Francia e Belgio sono molto più avanti, ma noi possiamo giocarcela. Non è possibile creare 15 occasioni e non far gol, ma sul gioco siamo già abbastanza avanti e possono crescere in un anno e mezzo i 1999, 2000 e 2001. Se li chiamo, è perché credo nella meritocrazia. Da loro esigo qualità, esperienza, classe».
È più facile arrivare in azzurro?
«C’è meno concorrenza: prima, ogni squadra aveva 5-6 italiani fortissimi. Kean, Zaniolo, Tonali e Scamacca li ho visti all’Europeo U19, il talento lo riconosci subito. Zaniolo è un interno di sinistra mancino, in Italia non ce ne sono tanti, lui e Mandragora. Ha dribbling e corsa, ha sfruttato l’occasione che gli ha dato Di Francesco. In macchina alla radio ho sentito che giocava titolare contro il Real. Ho detto: speriamo bene, sennò mi massacrano».
Altre sorprese in vista?
«Una, ma non sono ancora sicuro».
La sua rivoluzione è l’offensivismo spinto.
«È la mia convinzione. Ho molti calciatori tecnici e devono giocare insieme, come Jorginho e Verratti: prima non succedeva mai. Il tocco di palla non deve mai essere un “dong”, che la spedisce chissà dove. Capiterà di perdere in contropiede perché attacchiamo sempre, ma allenarci insieme ci farà migliorare in fretta. La cura della fase difensiva non deve mancare, serve equilibrio: attaccare con tanti giocatori, ma recuperare palla in avanti. I difensori stanno in una zona insolita, ma il meccanismo dà molti vantaggi, se funziona bene».
Il suo modulo sembra un 3-2-5.
«Di base è un 4-3-3, ma i giocatori tecnici consentono di tenere palla e fare salire i compagni. Vanno messe in conto le imperfezioni. A giugno avremo 7 giorni prima di Grecia e Bosnia: sfide fondamentali».
Le sue migliori partite: col falso nueve e col vortice in attacco.
«Non si danno riferimenti, nello spazio si attacca in tanti: per l’avversario è più difficile e tu hai più presenza nella zona della palla. Solo che abbiamo sbagliato una marea di occasioni con Portogallo e Polonia».
A chi deve di più come allenatore?
«Ai tecnici del vivaio, dall’Aurora Jesi al Bologna. A Burgnich: mi ha fatto debuttare in A quando pensavo di giocare con gli Allievi. A Boskov ed Eriksson, diversissimi in tutto».
La lezione più importante, in 40 anni di calcio?
«Che l’entusiasmo, in qualsiasi lavoro, è essenziale. Me lo porto dentro dal provino per il Bologna, a 13 anni. Col tempo ho aggiunto l’esperienza, per fare meno errori.
Anche se gli errori ti fanno diventare più forte: quando perdi, in realtà non perdi quasi mai, impari qualcosa».
Quando ha deciso di allenare?
«Prestissimo. Giocavo nell’Under 15 e a Coverciano c’era il corso allenatori. Chiesi alla Figc, a Italo Acconcia, se potevo farlo anch’io. Sorrise: “ Hai tempo. Pensa a giocare!”. Il patentino di base l’ho preso a 30 anni a Genova, giocavo ancora. Sarebbe utile per tutti i calciatori».
A 19 anni Bearzot la punì per una gita notturna a New York in ritiro con la Nazionale. Ora il Bearzot è lei.
«Magari, lui è un’icona: se vinciamo il Mondiale, fumo la pipa. Mi ha fatto debuttare in azzurro. E mi spiegò che, se gli avessi chiesto scusa , mi avrebbe riconvocato. Ma io mi vergognavo: avevo fatto una cazzata, mi ero fatto prendere dall’atmosfera di New York. Me lo disse tante volte: “ Sei un coglione, bastava chiedere scusa”. Non avrei mai pensato allora che avrei viaggiato tanto. Poi ho allenato in Inghilterra, in Turchia e in Russia: è un bagaglio prezioso anche da ct, per capire meglio le situazioni».
Inclusa la deriva dei social?
«Non la puoi impedire. Va gestita dai giocatori: se fai sapere i cavoli tuoi, non sempre va bene a tutti. A Euro 2020, semmai, metterò dei paletti».
Il ct è una figura paterna?
«Essere padri aiuta in panchina. Balotelli ha l’età di mio figlio e io sono stato padre anche di Mario, tra Inter e City. Fuori dal campo mi ascoltava. In campo, meno: “ Mi raccomando, sei già ammonito”. Dopo un minuto, espulso. In un Europeo o in un Mondiale pesa di più. Balotelli ha possibilità, se tecnicamente gioca al 100% e pressa, difende, fa gol. Ma deve essere perfetto».
Dal Mancini giovane campione emotivo, a Genova, al ct riflessivo e pacato. Una evoluzione?
«Emotivo per il calcio mai, solo dal punto di vista personale: da giovane uno è più irascibile, istintivo, scatta. Poi cresci, hai figli, hai a che fare con ragazzi che fanno tutto quello che tu facevi prima».
Il talento è per forza anarchico?
«No. Ci può essere il talento che sa «Non è facile gestire teste, lingue, metodi di allenamento e comportamenti diversi. Spero, quando smetterò, di sentirmi come quando smisi di giocare: felice».
Massimiliano Allegri minimizza il peso dell’allenatore, che però guadagna molto più di un tempo.
«Un tecnico bravo incide sui risultati al 50%. Le partite si vincono con i campioni, ma a un occhio esperto non sfugge se un allenatore sta lavorando bene».
Messi o Cristiano Ronaldo?
«Dipende dal feeling, dalle emozioni che ti danno. Gusti».
La Premier ha 4 finaliste di coppa.
«E stadi belli, pieni, un gioco velocissimo interrotto poco dagli arbitri, si protesta meno. In trasferta nessuno ti insulta. La sconfitta non è un dramma. Se una squadra retrocede, i tifosi vanno allo stadio. In Inghilterra sono stati essenziali i soldi dei diritti tv e i grandi capitali esteri. Arabi, russi, americani hanno investito dove c’è competitività».
Favorevole alla Super Lega?
«I campionati nazionali devono restare o si perde l’identità».
E alla A a 18 squadre?
«A 10 giornate dalla fine ci sono squadre già retrocesse. Ma 20 o 18 non cambia molto. L’Italia avrà sempre giocatori bravi: 4 Mondiali vinti non sono una casualità».
Cos’ha pensato dopo Italia-Svezia e il Mondiale mancato?
«Mi sono messo nei panni di Ventura, dei giocatori. Non bisogna mai dimenticare, è un monito: tutte le partite sono difficili. Per fortuna i miglioramenti sono stati più veloci del previsto. All’inizio mi dicevano: "Ma chi te l’ha fatto fare, non c’è un giocatore buono". Invece nessuno vuole mai incontrare l’Italia in un grande torneo».
Dovrà fare da papà calcistico anche a Kean, dopo Balotelli?
«Così avrò un posto in paradiso! Lo conoscerò meglio a giugno. È molto giovane, ha forza e senso del gol. Deve migliorare tecnicamente e caratterialmente, si agita dopo un fallo subito. Ai miei tempi gli attaccanti prendevano randellate. E se si lamentavano, pure uno schiaffo».
Kean, Gozzi e Salcedo sono un messaggio: l’Italia è multietnica.
«Sono nati qui e qui ci sono anche tanti venuti da fuori, persone perbene che lavorano seriamente. Sapete per me dove possono andare i razzisti?».
Mancini, non si sente il ct di un Paese troppo diviso?
«Purtroppo sì, siamo divisi. Lo sentono tutti, non possiamo non accorgercene. Non ha senso: siamo un bel Paese, pieno di persone di animo buono. Quelli che fanno del bene sono più di chi cerca di creare scompiglio. È ora di cambiare, il calcio farà la sua parte».