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 2019  maggio 14 Martedì calendario

Che noia fare lo scrittore

Tutti gli scrittori italiani invidiano Elena Ferrante. Non tanto per il successo internazionale quanto perché, protetta dalla grazia dell’anonimato, non ha mai dovuto fare una presentazione. Quella in forma classica (libreria, conduttore al fianco, pubblico folto, sparuto o accorso per ripararsi dalla pioggia) è diventata per molti una routine nella quale, come un politico all’ennesimo comizio, non ci si ricorda più dove si è e si ripete con sempre meno convinzione perché i personaggi fanno certe scelte o perché le persone non dovrebbero farne altre. Nasce allora il bisogno di alternative che richiamino e stimolino al tempo stesso, un” famolo strano” applicato al lancio editoriale. Occorre affrontare la cosa con la necessaria ironia. E con la premessa che chi scrive ha rivestito tutti i ruoli: spettatore, conversatore, autore. Che per salvare il genere si è spinto a tenere un corso su «come presentare uno scrittore» e si è prestato a molti esperimenti per uscire dal cliché. La sua esistenza e agonia è testimoniata da un racconto di Antonio Manzini in apertura del suo ultimo libro Ogni riferimento è puramente casuale. Si intitola Lost in presentation e narra le vicende di un autore trafitto da tardivo successo e conseguente «odissea di presentazioni» : 143, «dal delta del Po al Busento». Scoprirà località ignote, ma soprattutto un rituale inflessibile: sei copie in vetrina, libraio che si lamenta per la crisi del settore, conversatore della serata che domanda quanto di autobiografico ci sia nella vicenda, pubblico che si interessa a una possibile fiction, firme a una fila che non sarà mai il fiume davanti a Fedez, notte in albergo e via verso altre sei copie in vetrina, crisi del settore, curiosità autobiografiche. Ne mancherebbero ancora 141. Le variabili possono peggiorare il quadro. Mauro Covacich in Prima di sparire ha raccontato l’effetto di una platea vuota, sotto un tendone, accanto a un assessore. Mai programmare una presentazione in concomitanza con una partita di Champions League, per dire. Alessandro Piperno su Vanity Fair ha evocato la leggenda di una generosa stalker di scrittori, collocandola su un’isola non troppo remota e da lì molto ambita. Al netto degli imprevisti, che a questo punto sarebbero un dialogo vivace e una ripresina del settore, è ormai luogo comune che, come per ogni aspetto dell’editoria, occorra innovare, rischiare, sparigliare.
Gli autori per primi hanno sentito il bisogno di cambiare formula. L’idea iniziale è stata: less is more. Via il conversatore, via le domande, via la libreria. A tu per tu con il pubblico e che a parlare sia il libro. Nient’altro che le pagine, lette da chi le ha scritte: il reading. Presto però si è annusata una certa freddezza, salvo l’autore eccellesse per capacità interpretative e il testo virasse al comico. Ecco allora la presentazione- monologo, un vero e proprio spettacolo teatrale in cui lo scrittore per un’ora e passa enuncia i concetti del suo testo, talora improvvisando. Lo hanno fatto in molti, compreso chi scrive, provando l’iniziale ebbrezza del camerino (le luci allo specchio, la chiamata in scena, le orme dei grandi) e del palcoscenico (il sipario, il buio in sala, il ringraziamento con l’inchino o la mano al cuore). Fino alla replica, di solito intorno alla settima, in cui affiorava la domanda: «Ma se volevo fare l’attore, perché ho scritto un saggio sull’Italia contemporanea?». E allora si prova un’altra strada: la modifica del contesto, ovvero portare la letteratura dove la gente sta e abitualmente fa altro. Ci sono state presentazioni in crociera, nell’intervallo di un concerto di musica classica, al via di una regata. Si va a parlare del libro in carcere, dove la cosa acquista un valore sociale e nessuno esce prima della fine. Qualcuno lo ha fatto sulla spiaggia, arrivando dal mare in pedalò e qui il mezzo è il messaggio: hai voluto la pubblicazione, ora pedala. L’altra possibilità è il «rafforzamento dell’offerta». Come noto, basta guardare televisioni e giornali, “oggi tira il food”. E quindi l’implementazione gastronomica del momento culturale, per così dire. Di qui la presentazione con buffet a seguire, la frenesia che pervade l’uditorio al minuto 50, quando l’occhio scorge la prima tartina. Un’altra possibilità è la creazione del piatto in simultanea, ispirato al contenuto del libro, ad opera di un cuoco fantasioso. L’abbinamento è interessante, ma non per tutti. Come se la cava lo chef con titoli come Le cose che bruciano di Michele Serra o Le pratiche del disgusto di Ugo Cornia? A quel punto non resta che il grande salto, dalla cucina direttamente nel menù: a cena con l’autore, un assaggio di manzo e uno di romanzo. Il rischio è che in queste situazioni il libro si riduca a pretesto, mentre dovrebbe diventare un ipertesto, arricchito dalla trama degli incontri, dall’interpretazione creativa di ciascun lettore, dal confronto virtuoso. Manzini dedica il suo racconto «A tutti i colleghi, dovunque voi siate». Siamo qui tra librai volonterosi e appassionati veri a cercare un modo non scontato per parlare di quel che facciamo. Negli Stati Uniti, ad esempio, è ormai regola che per entrare alla presentazione si debba comprare una copia del libro, consapevoli che dovendo pagare si attribuisce un valore alla circostanza. I conduttori degli incontri sono sempre professionali e, prima delle domande del pubblico, chi organizza ammonisce: «Brevi e con il punto interrogativo alla fine». Là funziona, qui: ogni suggerimento è valido.