la Repubblica, 14 maggio 2019
La resa di Cutolo
In fondo al tunnel c’è un uomo che aspetta. Mezz’ora dopo, sotto lo sguardo di un agente che sorveglia dietro un vetro, dirà così: «Meglio la pena di morte. Preferisco un’iniezione letale che stare come sto: tumulato vivo». Carcere di Parma, sabato 4 maggio. Raffaele Cutolo è un settantottenne ormai simile a un automa. Come un relitto del Male, dopo mezzo secolo e sei anni di carcere – di cui 39 in totale isolamento, in cella solo, ora d’aria solo, come tutti i 41 bis A. R., acronimo di area riservata –” o’ professore”, per dirla con l’oleografia camorristica, è uscito dall’icona criminale. È un corpo svuotato: quasi calvo, tremolante, maglione marrone, camicia a quadri, il mento appoggiato al palmo della mano. La sala dove incontra uno dei suoi legali storici, Gaetano Aufiero, è nel ventre della palazzina che ospita il reparto dei 41 bis: un’ottantina di detenuti, carcere duro, c’è il” cecato” Massimo Carminati, c’era Totò Riina. Un satellite, questo girone dantesco dei mafiosi. Intorno, il carcere normale, gli altri. Per arrivarci si percorre un tunnel, poi c’è una pensilina. Cutolo scende da un’auto. Una porta di ferro conduce alla sala colloqui: scrivania, due sedie, dietro la parete il mezzanino protetto da una parete di cristallo. Lì è seduta la guardia carceraria: tipo acquario. Come gli anziani che ricordano le vite precedenti pescando tra dettagli minori, Cutolo fa: «Avvocato, si ricorda come la chiamava quello? ‘O principe...».
Chi è Cutolo, oggi, 56 anni dopo il primo arresto? Il mai pentito e pluriergastolano ex boss della Nuova camorra organizzata. Il protagonista della prima trattativa Stato- mafia ( decisiva per la liberazione dell’assessore Dc Ciro Cirillo). Un padrino rassegnato ma ancora preceduto dall’eco sinistra di un nome che non sbiadisce col tempo. Lui che forse avrebbe potuto portare alla liberazione di Aldo Moro perché ribadisce che sapeva – come ha rivelato Repubblica nel 2015 – dove lo tenevano i brigatisti: quel commando che «lo ha rapito con le armi della ’ndrangheta». Gli occhiali con le lenti rettangolari appoggiati sul tavolo. «Tra qualche mese verrà meno l’unico motivo per cui vivo», dice Cutolo al suo avvocato. «In vent’anni è la prima volta che ha mostrato segni di emozione» – giura Gaetano Aufiero. Il vecchio capo camorrista è un generale senza più esercito né galloni: non ha più nemmeno le sembianze di quel titolo, Il camorrista, film- cult di Giuseppe Tornatore che cristallizzò il mito malvagio.
La “resa” di Raffele Cutolo è una bambina che fa danza: si chiama Denise, figlia sua e del 41 bis, nata con inseminazione artificiale, partorita 11 anni fa dalla moglie bianca dell’ex boss, Immacolata Iacone, 55 anni, ventitré meno di “don Raffaè”. E qui è Fabrizio De Andrè. Quando Faber cantava Cutolo quest’ultimo sposava all’Asinara una ragazza di 17 anni: lei, Immacolata, da Ottaviano, il paese dove tutto è nato e dove ancora vivono madre e figlia. Racconta Cutolo: «Quando tra pochi mesi Denise compirà 12 anni, per il regolamento carcerario non potrò più avere un contatto fisico con lei. La vedrò solo attraverso il vetro. Io vivo solo per abbracciare mia figlia una volta ogni due mesi. La accarezzo, le faccio il solletico. Se non posso più farlo, preferisco che lo Stato mi faccia un’iniezione».
Cutolo è uno per cui è impossibile provare pena: è vero, ha il record italiano di lungodetenzione carceraria. Ma ha sulle spalle decine di omicidi, con la sua Nco fu capace di scatenare una faida che negli anni della camorra pre- Scampia produsse un bollettino di morte da guerra civile. Soprattutto, Cutolo non si è mai pentito. Passati quasi sessant’anni dai suoi esordi criminali ha detto di provare rimorso solo dentro se stesso, anzi, «davanti a Dio». Il che vale per quel che vale. La non- vita di Cutolo è il contrappasso per le vite tolte ai suoi nemici. Caso beffardo: il rivale storico, Mario Fabbrocino, “’ o Gravunaro”, boss della Nuova famiglia che spodestò la Nco cutoliana e ordinò l’omicidio di Roberto Cutolo, l’unico figlio maschio, è morto il 23 aprile scorso a pochi metri da Cutolo. Qui a Parma, stesso reparto. È l’unica notizia che è arrivata all’uomo che un tempo dietro le sbarre dettava legge in vestaglia di seta e con un cenno della testa muoveva i suoi boia ( Pasquale Barra fu il più feroce). Per il resto, zero. «Ero abbonato a quattro quotidiani e due settimanali. Da anni non mi portano più i giornali. Nemmeno il libro di poesie che ho appena scritto e che ho dedicato a mia figlia». La poesia. L’illusione della catarsi sul filo dell’autocelebrazione ( «il messaggio che voglio lasciare a Denise è che suo padre è anche poesia» ). «Hanno detto che sto malissimo. Non è vero – spiega Cutolo al suo avvocato –. Ma, a questo punto, la pena di morte è meglio». Che fine farebbero i segreti italiani di cui è depositario? «L’ho detto due volte che potevo salvare Moro ma che lo Stato mi ha fermato. Mi ha fermato Gava, e Cossiga non ha voluto incontrarmi». I ricordi di” don Raffaè” finiscono nei verbali di due interrogatori: uno a settembre 2015 ( Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro), e uno nel 2016 ( Dda di Napoli, pm Ida Teresi e Giuseppe Borrelli). Le memorie hanno l’imprimatur, tra gli altri, del giudice Carlo Alemi, ex presidente del tribunale di Napoli: «Cutolo dice la verità, poteva trovare Moro». Ma questa è una storia infinita, o forse si è chiusa quando Franco Roberti, era marzo 2015 ed era procuratore nazionale antimafia, sulle colonne di questo giornale replicò all’uscita un po’ iperbolica dell’ex boss («Se esco e parlo crolla il Parlamento» ): «Cutolo parli. Dica quello che sa e sarà valutato». Per la serie: basta ammuine, collabori con lo Stato e poi ne parliamo.
Ogni due anni dal ‘92 il 41 bis di Cutolo viene rinnovato. «A luglio lo impugnerò», dice il suo legale. «È giusto che paghi le sue pene fino in fondo. Ma dopo 56 anni di carcere forse una riflessione su una modalità di detenzione diversa è ipotizzabile». Cinque fotografie. Sono gli unici orpelli della cella del “professore” sceso dalla cattedra della camorra. Due papi – Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II –, la madre, la moglie con la figlia, lui con la figlia. «Hanno appena finito di montare un cortometraggio su Denise e la figura del padre», racconta Immacolata Iacone. Figli di boss. Figli di una padre sbagliato. Come il 23enne Antonio Piccirillo, che in piazza Nazionale a Napoli, dove è stata ferita Noemi, 4 anni, ha rinnegato il padre Rosario: «Amate sempre i vostri padri ma dissociatevi dal loro stile di vita. Perché la camorra ha sempre fatto schifo». Mentre Antonio lanciava il suo appello, in una petizione on line su Change. org 100mila napoletani chiedevano il trasferimento di Cutolo ai domiciliari. Un’assurdità. Forse anche per il padre di Denise, che dice: «La camorra oggi è una guerra impazzita senza più regole di ingaggio. Io voglio pagare fino in fondo per il male che ho fatto. Non chiederò mai sconti. Ma lasciatemi abbracciare mia figlia».