il Giornale, 14 maggio 2019
Parla Gaia de Beaumont, una «nobile» della scrittura
Intervistare Gaia de Beaumont non è una cosa facilissima, soprattutto se a farlo è uno scrittore stronzo come me. Io per esempio vorrei che parlasse male dei critici, degli altri scrittori, del mondo letterario, mi sono sempre chiesto perché in trent’anni di libri bellissimi lei sia sempre stata poco considerata. Nobile, della famiglia dei Pecci Blunt, padre francese e madre americana, sessantasette anni portati benissimo, e è stata sposata anche con Giordano Bruno Guerri.
Ci vediamo a Roma, al bar Il siciliano, in piazza Vescovio, vicino casa mia, che ho trasformato nel mio luogo di incontro, e cominciamo a chiacchierare davanti a due cocktail di scampi e una bottiglia di champagne. Dei critici non ne vuole parlare, anzi non sa neppure chi siano. Le faccio qualche nome: «Cortellessa, Onofri, La Porta, Berardinelli... questa gente qui... possibile non abbiano mai scritto di te?». «Mai sentiti nominare» dice Gaia, «in compenso ho avuto molto dagli scrittori».
Non mi stupisce, perché siamo un Paese in cui sono gli scrittori, i veri scrittori, a accorgersi dei talenti, i critici si fanno solo marchette tra di loro o scrivono libri sui loro amici critici oppure recensiscono libri di amici. Ma d’altra parte è sempre stato così, basta andarsi a vedere quanto i critici non si fossero accorti di Flaubert, Proust, Gombrowicz, senza considerare grandi scrittori che non sono mai neppure riusciti a pubblicare, come Kafka o Guido Morselli.
Mi dice che a scoprirla, e a farla esordire, è stato Goffredo Parise. «Che libro era?». «Collezione privata, nel 1981, uscì per Rizzoli». Aldo Busi elogiò il suo Ghiaia, mentre Alberto Arbasino, che poi è diventato un suo carissimo amico, recensì entusiasticamente Vogliamoci male su Repubblica. «Che libro meraviglioso Vogliamoci male, non si trova più?». «No». «E perché non lo fai ripubblicare?». «Quando lo vorranno fare lo rifaranno, io penso a andare avanti». Gaia, malgrado la sua eleganza aristocratica, quando scrive non è mai politicamente corretta. Mi ricordo che in Vogliamoci male c’era una difesa della pornografia come vera arte, dove diceva che solo gli uomini sono riusciti a rappresentare veramente l’essenza femminile. Trovatemela, una in grado di fare affermazioni simili, nella moralistica e sessuofobica era del #metoo.
Quelli di Gaia sono tutti libri strepitosi, non me ne sono perso uno, perché è anche lei una nipotina di Arbasino (come Arbasino era un nipotino di Gadda), e l’unico scrittore italiano a cui mi viene da avvicinarla per stile, eleganza, profondità e ironia è Piersandro Pallavicini.
«Hai qualche pettegolezzo sulla tua vita a New York? Insomma hai conosciuto Mick Jagger, Andy Warhol... com’erano?». «Erano gente che si comportava molto bene in società, non avevano niente di maledetto, come uno potrebbe pensare. Erano dei miti viventi, ma se li incontravi a una festa erano delle persone normali e gentili, dei damerini». Era spesso a cena da Kurt Vonnegut e sua moglie, e dice che Vonnegut era una persona adorabile, «il mio fidanzato ideale».
Mi viene in mente che Gaia abitava a New York negli anni Novanta, e allora le chiedo se frequentava i postminimalisti. «Li ho incontrati qualche volta, ma non li amavo. Mi sono sempre sembrati troppo... leggeri. Penso a Bret Easton Ellis, David Leavitt, ecc.» Fa una pausa, beve un sorso di champagne, e aggiunge: «Certo, sempre meglio degli italiani».
«A proposito di italiani, c’è qualche libro che ti ha colpito ultimamente?». Senza pensarci molto Gaia risponde: «Claudia Durastanti, La straniera, che tra l’altro ha pubblicato Elisabetta Sgarbi, il tuo ultimo editore se non sbaglio». «Sì». «È un romanzo bellissimo. E poi Nel giardino delle scrittrici nude, di Pallavicini, è un libro che vorrei aver scritto io, fantastico».
Tra giugno e luglio uscirà il suo nuovo romanzo, sempre per Marsilio, Le vecchie noiose, che già dal titolo mi fa venire l’acquolina in bocca. Perché Gaia è una scrittrice impietosa. Non è una di quelle che ti dicono che la vita inizia a quarant’anni, la vita inizia a cinquant’anni, inizia a sessant’anni eccetera fino a che una frase sulla vita che inizia non se la scolpiranno sulla bara. «Mi dai qualche anticipazione?». «Te lo mando appena esce».
Muoio dalla voglia di chiederle cosa pensa del premio Strega, del premio Campiello, di tutti questi premi del cazzo che abbiamo noi, ma devo insistere perché Gaia non ama parlarne, non ama fare pettegolezzi. «È una cosa che non mi riguarda, stesso discorso per i critici, a me interessa solo essere letta». «Ci sei mai andata allo Strega?». «Solo una volta, per Care cose, che arrivò in finale ma perse per un punto. Mi ricordo solo l’ansia, perché a casa Bellonci c’erano i megafoni perfino in bagno».
Nel frattempo abbiamo ordinato altri due cocktail di scampi, e quasi finita la bottiglia di champagne, anche se Gaia è ancora al primo calice, sono io che mi sono scolato tutto, come al solito. Eppure non capisco come, con tutti i bellissimi romanzi che ha pubblicato, non abbia rancori, desideri di vendetta, non voglia attaccare qualcuno. «Tipo questi Cognetti, questi Piccolo, questi Lagioia che vincono i premi e vendono con libri mediocri, non ti fanno rabbia?». Gaia fa spallucce. «Non so proprio di chi parli, non mi interessa. Il Premio Strega riguarda solo il mainstream, è gentucola». «E non hai voglia di ribellarti?». «Mi ribello scrivendo. E poi sono sicura che dopo la mia morte mi scopriranno tutti.» Beve un altro sorso di champagne, e aggiunge: «Certo che se mi scoprono prima è meglio».