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 2019  maggio 14 Martedì calendario

Ricordi della figlia di Stanley Kubrick

Guardare un film con Katharina Kubrick è un’esperienza di vita. Una porta aperta su un mondo. Lì, alla portata di tutti ma di cui pochissimi conoscono origini o provenienza. Una galleria di titoli che hanno fatto la storia del cinema tra i quali spunta improvviso il suo candore. «Il tavolino di casa nostra» ride sbirciando Barry Lindon. «Il tappeto della sala» si sorprende riguardando Shining. «I quadri della mamma» appesi alle pareti dei genitori di Alex DeLarge e della clinica per disturbi alimentari dello stesso protagonista di Arancia meccanica. «E quelli di mia sorella Anya» nelle lussuose stanze degli Harford di Eyes wide shut.
Gioielli di famiglia sparsi qua e là nella filmografia storica di papà, che lei chiama soltanto Stanley. Un uomo buono e semplice che si nutriva di cinema e idee e non ha mai perso di vista le sue figlie. «Ringrazio Iddio che all’epoca non c’erano i cellulari. Mi avrebbe tormentato con il suo dove sei.... È stato un padre severo. Prima di compiere 17 anni era vietato andare alle feste dove ci fossero ragazzi. E ho detto tutto». Ugualmente deciso lo era anche sul lavoro dove la famiglia, che per lui era sacra, veniva coinvolta con giudizio. Dalla moglie Christiane prese in prestito le tele, la terzogenita Vivian a soli otto anni fece un cameo in 2001: Odissea nello spazio e a quindici una comparsa in Barry Lindon e Shining. A 27 era un’operatrice di macchina in Full metal jacket ma con Eyes wide shut il giocattolo andò in frantumi. Doveva comporre le musiche ma all’improvviso scomparve. Il regista le scrisse una lettera di 40 pagine per farla tornare ma non ci fu nulla da fare. Vivian inspiegabilmente aveva tagliato i ponti con il suo passato.
Servirono anni per sapere che i motivi furono religiosi. Finì tra gli adepti di Scientology ma incuriosisce che proprio quel film fu il crocevia con Tom Cruise che di lì a due anni avrebbe divorziato dalla moglie e co-protagonista Nicole Kidman, tutt’altro che disposta a rinnegare il cattolicesimo per la setta. E fu la fine. La scelta di Vivian avvenne allora, in quel 1999, fine di un secolo che nel sonno si portò via anche il regista ma le superstiti dei Kubrick – mamma Christiane e la primogenita Katharina – ne hanno parlato solo nel 2010. L’anno dopo che Anya morì di cancro.
«Con Stanley ho lavorato su molti set ma il fatto di essere sua figlia non mi ha dato privilegi. Ero una della troupe, insomma. Una dei tanti. E con me era duro come con gli altri, sebbene capace di grandi slanci. E quando si fidava era generoso. A me toccava individuare i luoghi delle riprese, gli oggetti, i punti dove piazzare la macchina da presa. È accaduto che arrivasse e si complimentasse. Ottimo gusto, hai scelto bene. Quando capitava, era davvero bello».
Stanley Kubrick è stato il cinema. E forse lo è tuttora. «Lo hanno descritto come un genio dal carattere introverso. Chiuso. Respingente. Perfino cattivo. Ma non è vero. Prima di tutto era un uomo. Un marito. Un padre. E alla nostra famiglia mettono tristezza quei giudizi sbagliati. Non li merita».
Christiane e Katharina, le due donne rimaste, sono il ramo di un’ascendenza ingombrante. Quella di Veit Harlan, il regista di Hitler. L’uomo che girò Süss l’ebreo e divenne il favorito di Goebbels, incarnando i teoremi nazisti al cinema. Christiane era sua nipote, cugina di quel Thomas Harlan che fu una vendetta genealogica. Il figlio di Veit si schierò a sinistra e, sostenuto dall’amico Giangiacomo Feltrinelli, visse combattendo i vecchi arnesi del regime di papà al fianco di Fritz Bauer, al quale il grande schermo avrebbe dato rilievo con Lo Stato contro Fritz Bauer. 
«Non eravamo la tipica famigliola hollywoodiana» racconta Katharina che, sul cellulare conserva un’immagine di papà con i nipotini in braccio. «Eccolo, Stanley». Un americano che si era trasferito in Inghilterra e nel ’68, mentre il mondo si capovolgeva, fece dialogare un computer ribelle e un astronauta con mezzo secolo d’anticipo. L’anno prima che Neil Armstrong compisse il piccolo passo per l’uomo e il grande passo per l’umanità. «Papà era un casalingo, leggeva moltissimo cercando ispirazione ovunque. Narrativa. Saggi. Testi scientifici. Poi si svagava con il football, la boxe e il tennis. I suoi sport preferiti». E amava i gatti. «Dopo il Financial Times e il New York Times divorava pubblicazioni sui felini. Un giorno ne prese uno, poi si lasciò sedurre da un secondo, finì che ci ritrovammo con dieci mici e quattro cani. E anche loro venivano al cinema».
A casa Kubrick un’ala era destinata a questo. La bottega di Stanley. «Mia madre aveva l’atelier dove dipingeva e lui una sala montaggio e proiezione. Le loro porte erano sempre aperte per noi bambine. Mai ci hanno detto di uscire perché stavano lavorando. E mai siamo state spedite al college. La domenica si spegnevano le luci e...». Il giorno di festa era consacrato alla famiglia, un tutt’uno con i film. «Faceva scendere lo schermo dall’alto, si metteva alla consolle e dirigeva lo spettacolo. Sui nostri divani faceva entrare anche i cagnolini. Se poi non gli piaceva il film lo lasciava capire senza timidezza. Vogliamo continuare a vederlo o passiamo ad altro... Io ero l’addetta al riavvolgimento della pellicola».
La scelta non mancava. Tutto era attentamente selezionato. Alle figlie non venivano mostrati film senza controllo. «Quando guardava qualcosa non adatto a noi ragazzine scattava la doppia proiezione. I musical di Hollywood li ho visti tutti. E quando partiva un cartone o spuntava Elvis Presley il messaggio era chiaro. Voleva restare solo». In emergenza c’era sempre l’autista pronto a farsi una corsa in città per prelevare due pizze. Ma quelle erano destinate a tutta la famiglia. «Emilio D’Alessandro era uno di casa. Quando Stanley girò Barry Lindon in Irlanda spedì i rulli a Londra e lo mandò a controllare che fossero arrivati sani e salvi e li lavorassero correttamente. Guidava l’auto ma era il suo 007 personale». Stanley era un genio senza fronzoli né dietrologie. Uno che guardava tutto e non esitava a congratularsi con i colleghi. Lo fece con Ingmar Bergman, ad esempio. Gli mandò i complimenti e lui ringraziò. Se la prese solo con Il mago di Oz. «Non gli è mai piaciuto, ma non ho mai capito perché». E proteggeva i suoi lavori in corso. «Regalava poche primizie dei suoi progetti. Capitava di sbirciare la lavorazione giornaliera. Tranne che per Eyes wide shut. Volle che lo vedessimo solo una volta montato e finito. Ma se ne andò un attimo prima». E da vent’anni riposa sotto la pianta dove amava leggere. Nel giardino di casa.