il Giornale, 14 maggio 2019
Intervista all’astrofisica Simonetta Di Pippo
Simonetta Di Pippo è donna spaziale: non in senso metaforico, considerato che è il direttore di Unoosa, l’ufficio degli affari per lo spazio extra-atmosferico. Una astro-diplomatica, dunque. Di Roma, classe 1959, è arrivata al vertice dell’organismo che l’Onu dedica allo spazio grazie a «resilienza, flessibilità, dedizione e spirito di leadership», ci spiega. È poi un’abile organizzatrice. Anche perché «se si fallisce nel pianificare, si pianifica il fallimento». Unoosa garantisce l’uso pacifico dello spazio e un accesso sostenibile, fondamentale ora che è ripartita la corsa allo Spazio. «All’inizio dell’era astronautica – osserva –, fra il lancio dello Sputnik 1 nel 1957 e il primo uomo sulla Luna, nel 1969, c’erano principalmente Unione Sovietica e Stati Uniti. Ora si contano più di 70 agenzie spaziali».
Sono coinvolti anche i Paesi in via di sviluppo?
«Sicuramente. Con l’Agenzia spaziale giapponese, Jaxa, lavoriamo a un programma che ha permesso al Kenya di lanciare in orbita il suo primo satellite e ora si è dotato anche di una propria agenzia spaziale».
E che dire della Cina?
«Cresce a passi da gigante».
Quindi grande competizione
«Per la verità, il motivo portante delle imprese spaziali degli ultimi decenni è la collaborazione internazionale».
Si lotta sulla Terra e si fa pace nello Spazio. Ma è così?
«Non si può e non si deve prescindere dall’aspetto di cooperazione, anche se a mio avviso occorre essere autonomi per cooperare al meglio. In altre parole, una seria e proficua collaborazione si deve basare sulla competenza affinché non ci sia troppa disparità tecnologica e di mezzi tra i partners».
Come sta reagendo l’Italia?
«L’Italia ha visto il suo primo satellite andare in orbita nel 1964 e da allora ha sempre dimostrato grandi capacità tecniche e scientifiche».
Il 7 luglio andrà in orbita l’astronauta italiano Luca Parmitano
«Nel mio ruolo di direttore del volo umano all’Esa, nel 2009 fui a capo della commissione che selezionò Luca assieme ad altri cinque nuovi astronauti europei. Tra l’altro l’Italia vanta il maggior numero di voli alla Stazione Spaziale compiuti da propri astronauti dopo USa, Russia, Giappone e Canada».
Se dovessimo tracciare l’identikit dell’astronauta tipo?
«Affronta grosse sfide, deve sottostare a prolungati periodi di isolamento parziale, addestrarsi in modo compulsivo, essere il braccio operativo in orbita. Deve saper lavorare in squadra ed allo stesso tempo essere un grande leader. È metodico e creativo, chiamato a seguire le procedure alla virgola ma capace di improvvisare se necessario. Ha resistenza, elasticità mentale, controllo, determinazione. Alla fine, a prescindere dal settore, non sono queste le caratteristiche che deve avere una donna o un uomo di successo?».
Com’è che s’è innamorata dello spazio?
«Ho sempre aspirato a un lavoro che mi permettesse di non smettere di imparare, di studiare, di mantenere viva la mia passione per la scoperta, e anche di viaggiare. Il lavoro svolto attraverso i vari incarichi ricoperti risponde pienamente a questi criteri. Le attività spaziali sono un modo di vivere più che un lavoro. Inoltre, si è parte di un processo che porta con sé un senso di realizzazione e orgoglio per i traguardi raggiunti dall’umanità».
Quali sono i successi diplomatici di cui va più fiera?
«Nell’ultimo periodo professionale, un successo importante è stata l’approvazione, nel dicembre 2018, da parte dell’Onu dell’idea di sviluppare un’agenda strategica per il settore spazio, Space2030: è la prima volta nella storia che le Nazioni Unite si apprestano a produrre un documento che stabilirà la strategia di intervento nel settore sino al 2030. Un bel successo diplomatico direi».
Quanto è difficile trovare un equilibrio tra sfera privata e una professione, come la sua, non proprio comune?
«Ognuno trova il proprio equilibrio e soddisfazione secondo propri parametri e metro di misura. Credo che quello che conta sia la consapevolezza di poter fare la differenza. Trovare soddisfazione in quello che si fa ed essere organizzati».
Ha avuto momenti in cui la sua proverbiale resilienza è venuta meno?
«Sul lato professionale ho avuto un paio di periodi di riflessione negli ultimi trenta e passa anni, e come tutti, anche un paio di periodi di profonda riflessione sul piano personale. Ancora oggi, a 60 anni, se c’è qualcosa di controverso su cui decidere, uso sempre la stessa tecnica. Non parlo per un lungo periodo, trovo il mio bilanciamento e alla fine so esattamente che cosa fare. Non è un merito, è solo tecnica. Per avere successo occorre avere anche un grande rispetto per se stessi e per gli altri. Parafrasando un concetto di termodinamica, migliorare se stessi porta spesso ad un miglioramento per irraggiamento. Il sistema sociale intorno a noi si modella per irraggiamento appunto. Ed è quello che un leader deve saper fare naturalmente».
La sua famiglia la sostenne nel percorso di studi e poi professionale?
«I miei mi hanno sempre lasciato fare quello che volevo, se parliamo di studi e professione. Mi hanno anche cresciuta con un forte spirito di indipendenza. Come sempre, ognuno di noi è il risultato di una serie di scelte e circostanze, e di quello che consideriamo il nostro ruolo nella società. In famiglia abbiamo sempre coniugato sport e cultura, interessi comuni e interessi specifici, passioni e riflessioni, e questo mi ha aiutato ad avere una visione sempre ad ampio spettro su tutto».
Che tipo di studentessa era?
«Diligente, attenta. Allo stesso tempo, ero nota ai tempi del liceo e dell’università perché nella mezza giornata che precedeva gli esami ero solita andare a giocare a tennis. Era un sistema per sedimentare quanto appreso e raggiungere una forma mentale ottimizzata».
Per lei è stata coniata l’espressione «astro-diplomatica». Lei come si definirebbe?
«Direi che sono l’integrale (tra infinito e +infinito) di me stessa. Credo che sia una combinazione di caratteristiche di base e di cultura familiare, di studi non solo accademici e del mio continuo cercare di essere al passo con i tempi. È una sorta di soddisfazione interiore. Cerco di fare tutto bene, almeno secondo i miei criteri, nella vita professionale come in quella privata. Qualcuno una volta mi chiese se riesco a dormire la notte con tutti i problemi che debbo risolvere ogni giorno. Dormo benissimo, con piena soddisfazione, proprio perché di problemi da risolvere ne ho tanti e li risolvo».
Ma si sente più scienziata o più diplomatica?
«Non potrei fare quello che faccio ed essere quella che sono senza un mélange delle due. E sono anche convinta che molte cose si possano imparare e altre no. Di una cosa sono sicura però: niente compromessi».
Cosa dice agli studenti italiani per convincerli ad amare la matematica?
«È una forma di arte, l’arte di partire dal caos e razionalizzare. È alla radice di tutto, perché dati ed evidenza quantitativa sono la base necessaria per formulare teorie, alla base della spiegazione dei fenomeni fisici. E poi aiuta a pensare in modo strutturato. Un grande asset per i giovani».
Da quali pericoli devono guardarsi?
«Non si ottiene nulla senza lavorare sodo, e non c’è ringraziamento al dovere. Vedo spesso giovani che pensano molto ai diritti acquisiti e meno ai doveri. Quando insegno, cito spesso l’intervento di J.F. Kennedy alla Rice University a proposito della decisione di andare sulla Luna entro quel decennio: facciamo queste cose non perché sono facili ma perché sono difficili».
Quali altri insegnamenti ha tratto dal mondo spaziale?
«Nella Città delle Stelle, nei sobborghi di Mosca, dove ancora oggi si addestrano astronauti e cosmonauti, in una delle case vittoriane che ospitò anche Sheperd, il primo comandante della stazione spaziale internazionale, quando si imboccano le scale che portano nel piano semi-interrato, si vede una scritta che a mio avviso racchiude il senso di quello che siamo: l’ultimo giorno facile è stato ieri. Si tratta quindi di una progressione in complessità, a mano a mano che si avanza nella propria vita professionale e personale, si deve uscire dai propri schemi consolidati e affrontare con tranquillità nuove sfide. E quindi, l’ultimo giorno facile è stato ieri dovrebbe essere un motto per tutti, se vogliamo agire per un mondo migliore».
Torniamo allo spazio e ai voli suborbitali: sempre più appannaggio di privati. Che sviluppi prevede per il futuro?
«Anche se per il momento sono limitati a persone con una certa disponibilità economica, si stima che il costo di questi viaggi si ridurrà progressivamente, cosicché diventerà possibile per chiunque accedervi, come è accaduto per l’aviazione civile. Pensiamo ai voli low cost».
Con quali benefici?
«Si svilupperà una nuova percezione del ruolo e della fragilità del nostro pianeta. Gli astronauti raccontano spesso di come aver viaggiato nello spazio abbia cambiato la loro prospettiva nella vita. Per usare le parole dell’astronauta Scott Kelly: siamo tutti parte dello stesso equipaggio, la navicella spaziale terra, in volo attraverso lo spazio».
Tra gli obiettivi di Unoosa c’è l’utilizzo delle attività spaziali come strumento di sviluppo sostenibile. Quali sono gli ultimi progetti in tale senso?
«L’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile è una delle agende globali più significative e a più alto impatto mai messe in cantiere. I suoi 17 obiettivi vanno dal porre fine alla povertà in tutte le sue forme al garantire condizioni di salute e benessere per tutti, dall’offrire un’educazione di qualità, inclusiva e paritaria, al garantire la disponibilità e la gestione sostenibile di acqua e condizioni igieniche per tutti, quindi accesso ad energia pulita, garanzie di modelli di consumo e produzione sostenibile».
Lo spazio che ruolo ha in questo?
«Abbiamo analizzato i 169 sotto-obiettivi, il 40% dei quali sono strettamente dipendenti da dati e infrastrutture spaziali per poter essere realizzati. E se consideriamo anche le tecnologie di telecomunicazione, la percentuale può salire considerevolmente, intorno al 50-60%. Qualche caso di studio nel rapporto appena menzionato: monitoraggio dei ghiacciai, studio e monitoraggio dell’aumento del livello del mare, gestione delle foreste, monitoraggio del trasporto di materiali pericolosi, gestione dei disastri naturali e risposta all’emergenza, analisi della densità urbana e pianificazione urbanistica, monitoraggio della qualità dell’aria, agricoltura di precisione, e potrei continuare».
Un vantaggio per tutti i Paesi, anche quelli più poveri?
«Il nostro programma Un-Spider ((United Nations Platform for Space-based information for disaster management and emergency response) consente a tutti i Paesi e in particolare a quelli in via di sviluppo di accedere ad immagini satellitari in situazioni di emergenza come disastri naturali. Abbiamo un ampio network di partners su scala globale che vengono attivati ed intervengono in nostro sostegno a seconda delle necessità. Abbiamo recentemente lanciato Space4Water, un portale internet tramite il quale condividere sviluppi, risultati di conferenze, materiale, articoli e conversazioni su come utilizzare tecnologie spaziali per migliorare la gestione delle risorse di acqua, in risposta all’obiettivo 6».
Alla base di tutto, c’è il concetto di spazio come bene comune
«L’accesso allo spazio per tutti rivoluzionerà il modo di lavorare sulle questioni spaziali sotto l’ombrello Onu e porterà sempre più Paesi ad utilizzare le attività spaziali come elemento chiave di sviluppo sostenibile. Un gran bel risultato».