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 2019  maggio 14 Martedì calendario

L’illusione del sovranismo alimentare

Non sono più i tempi dell’autarchia alimentare e della spinta di Stato (o di regime) al consumo dei prodotti nazionali come il grano e il riso, della sostituzione del tè – in mano alla Perfida Albione – con il carcadé proveniente dall’Eritrea, allora colonia italiana (oggi diventato uno smartfood piuttosto di moda), degli orti di guerra, dello zucchero e del caffè banditi dalla tavola degli italiani.
Il Ventennio è lontano e l’Italia oggi lotta in un mercato globale per difendere le proprie eccellenze. Ma nella stagione del sovranismo il nostro Paese continua a faticare a trovare l’autosufficienza alimentare, stretta in un meccanismo in cui terreni, allevamenti, marchi, reti distributive sono sempre più concentrate in mani straniere e in cui si perdono milioni di ettari coltivabili a causa dell’abbandono delle terre. Un paradosso che resiste nel tempo e si aggrava a causa della diminuzione dei terreni destinati all’agricoltura.
«Abbiamo un fiorire di movimenti sovranisti, ma il ministero delle Politiche Agricole ci ricorda invece che oggi il nostro Paese è in grado di produrre appena l’80-85% del nostro fabbisogno alimentare, contro il 92% del 1991. In neanche 20 anni abbiamo ridotto dal 7 al 12% la nostra sovranità alimentare» raccontava alcuni giorni fa Domenico Finiguerra del Forum nazionale «Salviamo il paesaggio-difendiamo i territori» in un’audizione davanti alle commissioni Agricoltura e Ambiente del Senato. «Per tutelare e riprenderci la sovranità alimentare – spiega – dobbiamo fare i conti col fatto che stiamo perdendo suoli agricoli tutti i giorni». 
O SI INVESTE O SI MUORE
Il caso più eclatante è quello delle scorte dell’olio 100% italiano che si sono esaurite a inizio maggio a causa di un calo della produzione del 58%. Ma il discorso è più ampio e riguarda il grano duro per la pasta, lo zucchero, il pesce. E ancora il settore lattiero caseario e in generale tutto il comparto zootecnico nel quale scontiamo i vincoli strutturali del territorio italiano privo delle grandi estensioni necessarie per lo sviluppo di un settore ad alto fabbisogno di suolo come quello zootecnico. Gli allevamenti italiani, insomma, come spiega l’Ismea «non hanno dimensioni tali da soddisfare il fabbisogno interno di materia prima». Tanto che due prosciutti su tre derivano da maiali stranieri. 
Il ministro dell’Agricoltura Centinaio sta cercando, con la vendita di 7700 ettari in tutta Italia, di attirare giovani verso l’agricoltura. Ma il problema resiste. Con alcuni paradossi, come quello dell’olio, settore dove spesso si esporta qualità e si importa prodotto scadente in uno scambio non certo conveniente per il consumatore italiano.
«È stata una stagione complicatissima» spiega David Granieri, presidente di Unaprol, la più consistente associazione del settore olivicolo a livello nazionale e comunitario che rappresenta gli interessi di 250 mila imprese associate in Italia. «Il 2018 è stato segnato da una produzione eccezionalmente contenuta per quanto riguarda il nostro olio producendo ammanchi di produzione del 50%. Siamo a un minimo storico di 180mila tonnellate e il primo maggio le scorte di olio italiano sono finite, secondo i dati di Frantoio Italia. L’Italia è un produttore importante, ma è anche un grande Paese consumatore di olio. Il nostro autoconsumo si attesta sulle 600mila tonnellate, ma ne rivendiamo all’estero 550mila tonnellate. In sostanza quest’anno rischiamo di poter coprire soltanto il 15% del nostro fabbisogno».In questa situazione l’Italia rischia di trasformarsi in una facile preda per altri Paesi produttori come la Spagna: Madrid, di fronte a questo scenario, si trova nelle condizioni di entrare ancora più pesantemente nel mercato italiano. «Siamo a rischio, noi che da sempre siamo il Paese simbolo dell’olio extravergine. Se il governo non decide di investire in questo comparto rischiamo di scomparire».
LA SFIDA FRANCESE
Il tema dell’autosufficienza sta tornando prepotentemente di attualità. «La sovranità produttiva è parte fondante del nostro sistema agroalimentare» continua Granieri. «L’Italia si fonda su un modello agroalimentare e turistico in cui si esporta la cultura del territorio. Negli anni passati abbiamo ceduto quote importanti del nostro mercato, oggi sta tornando al centro del dibattito la necessità di essere autosufficienti, come già fa la Francia». Raffaele Maiorano, presidente di Confagricoltura Giovani, si sofferma sul paradosso qualitativo dell’import-export. «In annate normali produciamo quasi tutto l’olio che ci serve, ma in gran parte lo esportiamo quindi siamo costretti a comprarlo. E spesso la qualità importata è più bassa».
Una lettura diversa arriva da Francesco Bruno, docente di diritto alimentare alla Sapienza e al Campus Biomedico. «Per ogni problema complesso c’è sempre una soluzione semplice. Che è sbagliata. Sicuramente George Bernard Shaw non aveva contezza del sistema produttivo italiano quando ha coniato questa frase. L’olio di oliva e molte derrate agricole sono ai minimi storici produttivi, la dieta italiana e il Made in Italy nei consessi internazionali sono sotto attacco, incombe un atteggiamento governativo (almeno di una parte di esso) anti-imprenditoriale. Ma non serve l’autosufficienza alimentare, serve una nuova di politica di settore. Le imprese agroalimentari necessitano di una competizione regionale, interregionale e globale, di un approccio selettivo e qualificato che guardi a una dimensione quantomeno mediterranea se non planetaria degli scambi in cui il valore aggiunto della nostra penisola può ancora giocare una partita vincente. E c’è un precedente incoraggiante. Lo scandalo del vino al metanolo fu l’occasione per la riconversione dell’intero settore vitivinicolo. Dobbiamo giocare la stessa partita vincente per l’intero comparto alimentare italiano».
NON SOLO CANNA
Un altro settore che è in sofferenza è quello dello zucchero. «Fino al 2005 l’Italia era autosufficiente» spiega Claudio Gallerani, presidente della Cooperativa Produttori Bieticoli (Coprob) «poi è arrivata la riforma europea del 24 novembre 2005 in cui venivano tagliati i prezzi alla produzione del 36% e aumentate le compensazioni; la produzione italiana ha subito una ecatombe». Nell’ultimo decennio, insomma, l’Italia ha notevolmente ridotto la propria capacità produttiva e la maggior parte degli zuccherifici è stata chiusa. Se dieci anni fa c’erano 19 zuccherifici in Italia, oggi ce ne sono solo due; la superficie coltivata era di 233mila ettari e oggi sono 34mila; la produzione di zucchero era di 1,4 milioni di tonnellate e oggi è di 300mila; i dipendenti erano 7mila e oggi sono 1.200, con una copertura del 15-20% del nostro fabbisogno». 
Oggi «Coprob è l’unico produttore nazionale di zucchero 100% made in Italy» continua Gallerani, «sostenibile e di alta qualità e sta investendo in innovazione e qualità con lo zucchero biologico, ma anche con il lancio di Nostrano, il primo zucchero grezzo ricavato dalla barbabietola, anziché dalla canna da zucchero come avviene solitamente (è uno zucchero più scuro e meno dolce), pensato per consumatori orientati verso cibi genuini e poco raffinati la garanzia della qualità e della sicurezza alimentare tipiche del made in Italy». Il mito dell’autosufficienza alimentare da sempre si lega con la produzione di grano, tanto più in un Paese che ha nella pasta il simbolo dell’italianità a tavola. Gli italiani consumano 26 kg a testa di pasta l’anno. Neppure in questo campo, però, siamo autosufficienti. Si importa grano duro dall’estero per soddisfare un fabbisogno annuo di 6 milioni di tonnellate rispetto a una produzione nazionale media di 3,5/4 milioni di tonnellate ma soprattutto per rispondere alle esigenze qualitative che spesso il grano italiano non soddisfa.
UN POPOLO DI PASTASCIUTTARI
L’Italia è il primo produttore europeo di grano duro, con una raccolta che nel 2015 è arrivata attorno ai 4 milioni di tonnellate. Tuttavia non siamo mai stati autosufficienti dall’Ottocento, quando era straniero il 70% di grano duro, il doppio di oggi e nei porti di Napoli, Genova e Bari arrivava un grano proveniente per il 90% dal Mar Nero. 
Da allora la produzione di pasta è aumentata di circa sei volte negli ultimi 80 anni. Oggi la nostra produzione copre solo il 70% del fabbisogno. All’origine della pasta c’è sempre il grano, quello duro anzitutto, più ricco di proteine, ma anche i grani antichi, come Tumminia o Senatore Cappelli. Ma ogni anno ne arriva tanto da Francia, Canada, Stati Uniti o Australia. E tutto questo nonostante il settore pasta rappresenti la prima voce del nostro export agro-alimentare valendo da solo un quinto delle esportazioni. Per i grandi produttori usare solo grano italiano è difficilissimo. 
Ma per i produttori medio-piccoli usare solo grano 100% italiano sta diventando una opzione sempre più attraente e una leva di marketing importante per evocare storia, appartenenza e suggestione del territorio. E fondere cibo, terra e prodotto in una sola parola.