il Giornale, 14 maggio 2019
Anche i greci lavorano più di noi
L’ultima priorità per il governo in carica l’ha indicata in un’intervista al Fatto quotidiano il neo-presidente dell’Inps Pasquale Tridico: «in Italia non ci sono riduzioni dell’orario di lavoro dal 1970. Ma il progresso tecnico produce guadagni di produttività che vanno redistribuiti sotto forma di salario o di tempo libero. Le forme possono essere diverse, dallo smart-working alle riduzioni per legge come in Germania».
A Tridico, come ai grillini di cui è simpatizzante, sembra sfuggire un dettaglio: proprio il mancato aumento della produttività è il male dell’economia italiana, per questo i guadagni da dividere sono ben magri. Ma è un dettaglio, appunto. Perché il sasso è ormai lanciato. E a fornire i presupposti teorici è il millenarista in capo del movimento Cinque Stelle: secondo la tesi spesso ripetuta da Davide Casaleggio la tecnologia elimina posti di lavoro, che diventano merce rara. E se il lavoro non c’è, il futuro è del reddito di cittadinanza (salario senza occupazione) e di quota 100 o equivalenti (si fanno uscire un po’ di anziani dal mondo produttivo per fare entrare, almeno in ipotesi, un po’ di giovani). Oppure si recupera il vecchio slogan tanto popolare negli anni Settanta: lavorare meno lavorare tutti. La torta, più piccola, viene divisa in fettine sempre più minuscole per accontentare più persone possibile.
La tesi potrebbe essere legittima, se non fosse che basta superare Chiasso per accorgersi che è sbagliata. In Svizzera, Germania, Scandinavia, genericamente in Nord Europa, dove le nuove tecnologie sono più diffuse e la produttività più alta, la popolazione attiva raggiunge livelli anche superiori al 70%, quasi 20 punti in più del dato italiano. Il problema, ha scritto il Foglio, è che in questo momento dalle parti dei giallo-verdi prevale la visione di «un’economia precapitalistica, si pensa che il mercato del lavoro sia come un autobus dell’Atac: scalcagnato e talmente pieno che per fare salire qualcuno, bisogna che qualcun altro scenda». Al contrario, e per continuare nella metafora, la scelta migliore sarebbe quella di puntare a un modello di autobus più grande. O, come più correttamente ha scritto di recente Alessandro Rosina, docente di Demografia e Statistica sociale alla Cattolica di Milano: «la vera necessità del Paese è aumentare la platea di chi produce ricchezza se vogliamo evitare un futuro sempre più scadente».
IMPIEGHI A BASSA INTENSITÀ
Viste le premesse e le idee di chi in questo momento è al timone della nave Italia sembra improbabile che questo accada. E la vera emergenza dell’economia è destinata a rimanere tale. Perché da noi a tagliare l’orario ci ha già pensato la crisi e anche quel poco di ripresa che c’è stata si è rivelata, come dicono gli esperti, «a bassa intensità lavorativa».
L’espressione è contenuta in un rapporto, «Il mercato del lavoro 2018», che è una specie di summa sui problemi dell’occupazione, presentato qualche tempo fa da una serie di istituzioni che seguono l’argomento da vicino (tra gli altri ci sono Istat, Inps e Anpal). Le conclusioni, che si basano sull’esame dei dati tra il 2008 e oggi, mettono in evidenza uno dei sintomi della malattia italiana: siamo il Paese europeo in cui in proporzione si lavora di meno, almeno se si guarda all’economia ufficiale. Perfino la derelitta Grecia ci supera.
A fare la differenza non è tanto il numero dei disoccupati (con il 10,7% abbiamo comunque un posto d’onore a livello europeo). Sotto molti aspetti ancora peggiore è il dato della popolazione attiva, quelli che hanno un lavoro o, almeno, lo cercano. In Italia siamo al 57,1% (almeno una dozzina di punti lontani dalla pattuglia di testa) ma nel Mezzogiorno al 48,1. Alcune zone della Calabria sono paragonabili da questo punto di vista ai distretti più depressi del Marocco spagnolo. Il resto della popolazione, gli inattivi, sono fantasmi che sfuggono a ogni rilevazione e che per definizione non contribuiscono alla crescita del prodotto interno. Per dare un’idea del gap tra la Penisola e il resto del Continente basta citare un dato: se il nostro tasso di occupazione fosse pari a quello della media europea in Italia ci sarebbero 3,8 milioni di posti di lavoro in più.
LA RICCHEZZA NON C’È PIÙ
Sembrerebbe abbastanza per dipingere un quadro fosco. Ma c’è di più e, se possibile, forse anche di peggio. Rispetto al 2008 la ricchezza prodotta nel Paese è inferiore del 3,8%, l’occupazione dello 0,5%, ma le ore lavorate sono giù del 5,1%. All’appello ne mancano ancora 1,8 miliardi. Che fine hanno fatto?
Molto semplicemente, le persone occupate a tempo pieno rispetto al 2008 sono 900mila in meno, in compenso sono cresciuti molto i rapporti di lavoro a orario ridotto e a carattere discontinuo.
La tendenza sotto gli occhi di tutti è dunque quella di un ridimensionamento del lavoro tradizionale e del boom di tempo parziale e tempo determinato, con pause spesso rilevanti tra un contratto e l’altro. Da notare, però, che l’evoluzione non rispecchia un mutato atteggiamento culturale dei lavoratori, magari diventati più attenti alle esigenze di qualità della vita. Anzi, è vero il contrario. Secondo tutte le rilevazioni la gente vorrebbe lavorare di più ma non riesce a farlo: sono i cosiddetti «occupati a tempo parziale involontari», che in 10 anni sono cresciuti di 1,5 milioni.
Di fronte a questa situazione, ridurre, magari per legge come ipotizza Tridico, l’orario di lavoro sembra davvero l’ultimo dei provvedimenti da mettere in agenda. Tanto più che da adesso in poi bisogna fare i conti con il reddito di cittadinanza, i cui effetti di medio-lungo periodo sono ancora tutti da valutare. «Quanto a creazione di nuovi posti le potenzialità sembrano limitate», spiega Bruno Anastasia, economista e responsabile dell’Osservatorio sul mercato dell’impiego di Veneto Lavoro. «Le persone che ricevono il reddito e sono obbligate ad attivarsi per la ricerca di un’occupazione rimangono una minoranza. Molti hanno problemi più gravi, per esempio di salute, e la legge li esenta. Altri un lavoro ce l’hanno e ricevono il reddito perché sono inseriti in una famiglia in difficoltà. Per loro non cambierà nulla».
Anziché migliorare l’accesso all’impiego, secondo molti il reddito finirà piuttosto per ridurre il tasso di partecipazione al mondo produttivo, offrendo un’alternativa in alcuni casi più comoda. La crescita della platea dei produttori di ricchezza, auspicata da Rosina, non ci sarà. «Io voglio essere prudente», continua Anastasia. «Il reddito diventerà l’elemento di una valutazione di opportunità da parte degli interessati. Sarà un fattore positivo di inclusione sociale, ma qualcuno penserà: val la pena che esca di casa o mi basta quello che mi danno? Certo, cambieranno le abitudini: io ho una certa età e ricordo che prima della nascita del Sistema sanitario le famiglie risparmiavano per fare fronte a malattie o ricoveri. Poi non fu più necessario, ci pensava lo Stato».
BASSA CILINDRATA
Scontata la cautela su effetti ancora di là da venire, delle due anime del reddito, quella di sussidio di povertà e di indennità di disoccupazione sembra la prima quella destinata a prevalere. A non aumentare sarà la cilindrata dell’economia italiana. Che dal punto di vista dell’impiego ha dovuto fare i conti negli ultimi anni con un altro fenomeno epocale: la caduta verticale del numero dei lavoratori indipendenti. In dieci anni sono diminuiti di oltre il 10%, con un calo in valore assoluto di oltre 600mila persone. Anche in questo caso il fenomeno segna uno strutturale cambiamento di scenario.
«Da questo punto di vista tutti i dati sono univoci», spiega Anastasia. «L’Italia è sempre stato il Paese europeo con la massima propensione all’auto-impiego, che raggiungeva percentuali pari al 25/30% del totale degli occupati, fino al doppio che in altri Paesi. Ora le cose sono cambiate e ci stiamo omologando al resto d’Europa».
A pesare in questo caso sono la crisi del commercio al dettaglio, il calo nel numero degli artigiani (vedi anche l’altro pezzo in pagina), l’accorpamento della proprietà agricola con la riduzione dei coltivatori diretti, in molti casi andati in pensione. «Il fenomeno delle nuove figure con contratti autonomi che gravitano intorno alle imprese del terziario avanzato è sovrarappresentato sui media, ma non compensa le riduzioni di altri settori», aggiunge Anastasia, che spiega il calo dei lavoratori indipendenti anche con un altro fattore: «Tra le nuove generazioni la spinta a fare impresa non è più così forte come nel passato. Avviare nuove attività è più difficile che un tempo, sia dal punto di vista degli sbocchi di mercato, sia da quello degli ostacoli pratici e operativi che ci si trova di fronte».
E qui, volendo, si torna al punto di partenza: la torta del lavoro cresce in parallelo a quella dell’economia. Di questa ci si dovrebbe preoccupare. Per impostazione culturale i grillini non paiono cogliere il concetto. E anche la Lega di governo sembra distratta.