Libero, 14 maggio 2019
Bret Easton Ellis manda tutti al diavolo
Dopo aver fatto innamorare Jonathan Franzen e aver inconsapevolmente ispirato Martin Amis, c’è una terza versione di David Foster Wallace che fa da collante alla triade dei romanzieri diventati saggisti che abbiamo messo a fuoco in questa serie, “Scrittori all’attacco”. Wallace, infatti, è stato un incubo per il giovane Bret Easton Ellis: era il 1988, quando nel suo saggio Futuri narrativi e i vistosamente giovani, Wallace criticò quel movimento di scrittori, in cui includeva Ellis, da lui chiamato Conspicuously Young (vistosamente giovani) che a suo avviso aveva la caratteristica di piagnucolare di continuo su quanto fosse insoddisfacente ottenere tutto ciò che si vuole. Queste storie sono divertenti, scrisse, ma è una letteratura atroce. Ellis, ovviamente, rispose: «Chiunque giudichi Foster Wallace un genio letterario dovrebbe essere incluso nel Pantheon degli imbecilli». Oggi che Wallace è morto e che Ellis è diventato grande – ha compiuto quest’anno 55 anni – scopriamo che i due non sono poi così distanti: come romanziere Ellis, in American Psyco e Glamorama, ha descritto in maniera spietata la civiltà dell’immagine, della finanza e i loro guasti mortiferi; così come Wallace, dichiarato teledipendente, è stato uno dei primi analisti dell’allora gioventù nevroticamente devota all’intrattenimento, cui appartenne. Non diversamente, Ellis, in questo nuovo libro il cui titolo èWhite, bianco, parla di quanto gli diano il voltastomaco i Millennial, i nati tra i primi anni Ottanta e la metà degli anni Novanta, i liberal ossessionati da Trump, Bernie Sanders, i social network, il movimento del #MeToo. Il volume, uscito negli Stati Uniti il 16 aprile scorso (uscirà in Italia in autunno per Einaudi), mette insieme otto saggi sull’America contemporanea; avrebbe dovuto chiamarsi White privileged man, maschio bianco privilegiato, e per lo scrittore americano è l’esordio nella saggistica, nove anni dopo l’ultimo dei suoi cinque romanzi, Imperial Bedrooms.
I MILLENNIAL
I primi contro cui si scaglia, i Millennial, vengono definiti Generation Wuss, generazione cacasotto: odia il narcisismo che li contraddistingue e quella che sembra essere un congenita forma di vittimizzazione, «devono tirarsi su le braghe e asciugarsi il moccolo», scrive l’autore. Ellis sa di poter scrivere al di sopra di ogni sospetto: è gay ed è fidanzato proprio con uno di loro, il cantante Todd Michael Schultz, 22 anni più giovane di lui, che descrive come «un socialista millennial anti-Trump». Ellis odia i liberal: «Ogni volta che sentono nominare Trump sembra che si debba passar loro i sali», dice. L’isterismo liberal verso il presidente americano è, per l’autore, materia da psicanalisi: «Barbra Streisand ha detto di essere ingrassata per colpa di Trump. Lena Dunham ha detto di essere dimagrita per colpa di Trump. Ovunque ci sono persone che incolpano il presidente per le loro nevrosi». Irride Bernie Sanders, che dice cose «impraticabili, al limite dell’assurdo». E il #MeToo? È finito col degenerare: «Doveva ripulire un mondo putrido, ma è sfociato in una rabbia generalizzata nei confronti della categoria “uomini bianchi sopra i cinquanta” che devono essere purgati perché Hillary Clinton ha perso le elezioni».
LO SPORCO DEL MONDO
Nella confusione di questo momento storico, Bret Easton Ellis, che è un romantico di ritorno, sostiene che l’unico modo per sopravvivere sia mantenere un senso di neutralità e di distanza: la ricerca di candore rispetto al confuso sporco del mondo. Per questo, se la prende anche con la cultura aziendale imperante: «La nuova economia dipende dal fatto che ognuno mantenga un atteggiamento reverenzialmente conservatore ed eminentemente pratico: tieni la bocca chiusa e la gonna lunga». Ce l’ha con la limitazione della libertà di espressione: i social media impongono «conformismo e censura», scrive, «se rifiuti di unirti al coro di approvazione sarai etichettato come un razzista o un misogino. Questo è quello che succede a una cultura quando non si preoccupa più dell’arte». A Ellis, la banalità del politically correct non è mai andata giù: quando la rivista Rolling Stone gli chiese se, in quanto gay, non avrebbe dovuto votare a sinistra, Ellis rispose: «Questo suggerisce che io voti con il mio pene. Lei sta suggerendo che l’immigrazione, l’economia e le altre politiche contino molto meno del fatto che io possa sposare un uomo. Questo è il problema della politica dell’identità, ed è ciò che ha messo in difficoltà Hillary. Se hai una vagina, devi votare per Hillary». Ecco perché Wallace e Ellis, dunque, sono due facce della stessa medaglia (e forse per questo non si sopportavano): entrambi sono scrittori che non possono fare a meno della realtà, per poter scrivere di finzione. E quando si dedicano ai saggi sono più spietati, e più onesti, e più efficaci, della psicanalisi.