Corriere della Sera, 13 maggio 2019
Intervista a Gianola Nonino
Dei soprannomi che le ha dato Gianni Brera quale le piace di più?
«Sono indecisa tra “Nostra signora delle grappe” e “Principessa della zolla”».
Si sente un po’ principessa?
«No, no. Mi piace la zolla. Sono molto legata alla civiltà contadina».
Giannola Nonino, nata Bulfoni nel 1938 («Non scriva l’età, ma che sono trentottina!»), agli atti della London School of Economics è la donna che ha trasformato la grappa «da Cenerentola a Regina del mercato». Ha un marito, Benito, con cui è in «lotta continua» da quasi 57 anni, e tre figlie, Cristina, Antonella ed Elisabetta, che conducono l’azienda di famiglia nata nel 1897 con un alambicco ambulante.
Giannola, si ricorda i suoi tre parti?
«Ah certo. Soprattutto perché all’ospedale mi avevano dato una sentenza di morte. A due anni una febbre reumatica mi aveva fatto venire un soffio al cuore, se ne accorse il pediatra quando ne avevo dieci. A 18, avevo appena conosciuto Benito, lo specialista disse che avrei dovuto cambiare la valvola prima dei 25 e che non avrei dovuto partorire altrimenti sarei morta. E invece ho avuto tre figlie e non ho mai cambiato la valvola!».
Sono nate a casa o all’ospedale?
«All’ospedale, con elettrocardiogramma e tutto. Due ore prima lavoravo, poi ero ricoverata. Due giorni dopo ero già in azienda».
E chi si occupava delle bambine?
«C’era Ada, per loro una seconda mamma. Ma quando avevano la febbre mi portavo a casa le cose da fare: ero fortunata».
Che madre è stata?
«Non penso buona. Ero piuttosto severa. Me le portavo sul camion durante la vendemmia».
Guidava lei?!
«Sì, avevo la patente C».
Cosa diavolo se ne faceva?
«Negli anni 50 il governo per raggranellare più soldi si inventò di aumentare in maniera enorme il bollo della patente B. Siccome ci fu una sommossa, decisero che presentando una domanda in carta bollata – dunque altri schei — si poteva aggiungere alla B la C. Io non avevo preso nemmeno una lezione, capito?».
E allora perché finì sul camion, per giunta con le sue bambine?
«Perché durante la vendemmia, quando gli operai erano in pausa, io e Benito trasportavamo la vinaccia con i nostri due camion, Leoncino e Daino. Io per cambiare le marce dovevo fare la doppietta e mettermi in piedi, perché ero piccolina e non avevo abbastanza forza. Comunque le bambine avevano la paghetta: anche quando imbottigliavano le ampolle piccole, d’estate, venivano pagate».
Benito è il suo grande amore. Come le fece la proposta di matrimonio?
«Me la sono fatta da sola».
Non ci credo.
«A quei tempi usava andare dal papà a chiedere la mano, il mio era una persona riservata. Gli dissi: “Sai, papà, Benito deve chiederti una cosa...”. Ho fatto da tramite e ho tirato fuori l’anellino che avevo al dito sinistro».
Che cosa la fece innamorare?
«Che non dimostrava nessun interesse per me! Mi sono sempre piaciute le missioni impossibili... Mi sono innamorata prima di lui e poi del suo mestiere, l’arte della distillazione, dove è un dio. Ha un’intelligenza al di sopra della norma, è molto appassionato, è interessato alla storia, alla geografia, alla filosofia...».
Ho letto anche di liti leggendarie.
«Ah, quando ci arrabbiamo volano piatti, bicchieri, bottiglie... Penso che non sia stata una vita facile per le nostre figlie, ma le liti sono quasi un gioco amoroso, non durano mai molto. E poi alla fine vince sempre la grappa».
Siete gelosi?
«Io sì, di tutto, anche delle mie figlie e delle mie nipoti. Non mi andavano mai bene i loro mariti, sono fatta così. Benito non è geloso e non mi ha mai fatto ingelosire pur essendo molto simpatico. Si incavola sempre quando balliamo il tango perché ho la tendenza a guidare, non mi piace seguire».
Sua suocera non le rese la vita facile.
«Eh, ma a me piacciono le sfide! Diceva che ero viziata, che non sapevo nemmeno rifarmi il letto. Quando rientrammo dal viaggio di nozze ricordo che andai a darle il bacio della buonanotte, come facevo con mio padre e con mia madre. Le dissi: “Buonanotte mamma Silvia”. E lei guardò mio marito e in dialetto gli disse: “Questa è pazza, che viene a baciarmi prima di andare a letto”».
Era molto legata ai suoi genitori.
«Mio padre Luigi detto Gigi era un ragazzo del ‘99, emigrante figlio di emigranti, nato a Rosario di Santa Fe, in Argentina: a lui devo l’amore per la terra, diceva che se perdiamo il legame con le origini perdiamo l’identità. Mia madre Costantina detta Tina era una donna bellissima, moderna, emancipata. Faceva la maestra. Ha cresciuto me e mia sorella Annina dicendo che dovevamo essere economicamente indipendenti per non essere costrette a vivere con un uomo che ci mantenesse».
Lei però dopo aver conosciuto Benito lasciò l’università.
«Ma non per mio marito. Ero iscritta a Lingue a Ca’ Foscari. Mio padre ebbe un ictus e dovetti dare una mano in azienda. Mi dispiace solo di non aver imparato l’inglese, sono stata stupida perché avevo i mezzi per andare a Londra. Quando nel 1980 inaugurarono a Park Avenue la prima enoteca italiana di New York memorizzai davanti allo specchio tutta la storia della grappa Nonino».
Una storia che le deve moltissimo. Fu sua l’intuizione di distillare materia freschissima di un solo vitigno. Il primo fu il Picolit.
«Sì, e le mie alleate furono le donne. Quando chiesi ai vignaioli di tenermi da parte le vinacce separate mi liquidarono dicendo che ero matta e non avevano tempo da perdere. Allora ci provai con le mogli, che ai tempi non erano indipendenti economicamente: per potersi fare la permanente o comprare le calze velate vendevano uova, polli, conigli. Cominciai con la prima: “Signora, ho bisogno della vinaccia di Picolit separata dalle altre, ma suo marito non ne vuole sapere. Le porto i sacchi e le rimborso i soldi della telefonata perché dovete chiamarmi subito dopo averla messa da parte. Ma se a suo marito do 2.500 lire per un quintale di vinaccia mescolata, io a lei ne do 2.500 al chilo se me la tiene separata”. E lì ho vinto la mia battaglia».
Che però non era finita.
«Mio marito mi aveva preparato un grande tino di legno, e poi, bravissimo, siccome la vinaccia ce la davano con il raspo, si era fatto prestare una rete per la ghiaia e l’abbiamo usata come setaccio. La mia aiutante era Ada: se l’esperimento andava male non potevo far danno all’azienda. Era il primo dicembre 1973, con Benito agli alambicchi: quando dalle campane di vetro uscirono le prime gocce di grappa, con le mie figlie aggrappate alle mie gambe, seppi che ce l’avevamo fatta!».
Quasi fatta.
«Da quel momento abbiamo avuto tutti contro, dicevano che non era possibile. Così, nel 1975, decidemmo di istituire il Premio Nonino Risit d’Âur, per chi salvaguardava i vitigni autoctoni. E lì giocai d’astuzia: chiamai in giuria proprio quelli che mi facevano la guerra».
Nel tempo si sono aggiunti il premio letterario e il Nonino Internazionale. Avete anticipato cinque Premi Nobel.
«Sì: Rigoberta Menchù, V. S. Naipaul, Tomas Tranströmer, Mo Yan e Peter Higgs».
Chi decide i vincitori?
«La giuria, composta da ex premiati, eccetto Claudio Magris perché lo statuto prevede che il riconoscimento non possa essere assegnato a chi ha già ritirato un premio in Italia negli ultimi due anni, ma lui ne vince sempre uno!».
Chi provvede a far venire a Percoto tutti questi personaggi? Avete sovvenzioni?
«No, tutto noi. Non vogliamo contributi dallo Stato perché desideriamo mantenere l’indipendenza. Però è una continua battaglia per riuscire a scaricare le spese, che vengono considerate come spese di rappresentanza e non come spese di comunicazione e dunque riusciamo a scaricarne una piccolissima parte. Per noi è sempre più faticoso mantenere il premio, ci vorrebbe una legge per fare chiarezza».
Non sarebbe la prima «legge Nonino».
«È vero, l’altra la ottenemmo per produrre l’acquavite d’uva».
La Regina d’Inghilterra ha assaggiato la vostra grappa?
«Non so. Ma sono certa che lo abbia fatto Nakasone, l’ex primo ministro del Giappone, l’ex cancelliere tedesco Helmut Kohl, l’allora re di Spagna Juan Carlos».
I presidenti della Repubblica?
«Avevo un rapporto speciale con Carlo Azeglio Ciampi. E stimo moltissimo Sergio Mattarella, per il coraggio che ha avuto di prendere una posizione sulle foibe».
Il libro della vita?
«Le poesie di Leopardi: mia madre me le faceva imparare a memoria camminando per i campi».
Ha otto nipoti, sette femmine e un maschio. Come si chiama il poveretto?
«Antonio Davide Maria Bardelli Nonino».
Ha voluto lui il cognome del nonno?
«È stata la madre, Cristina, lo ha fatto aggiungere anche alle sorelle. Mi piacerebbe che lo prendessero tutte le nipoti».
Pensa di essere stata migliore come nonna?
«Proprio no. Quando è nata Chiara, la prima, che oggi ha 34 anni, mi ero ripromessa di stare con lei tutti i sabati...». Figuriamoci.