Corriere della Sera, 13 maggio 2019
Madri sovrane nell’Ungheria di Orbán
Ai tempi del socialismo qui si scavava carbone e le fabbriche producevano alluminio. Oggi a Várpalota, ventimila abitanti 90 km a sud-ovest di Budapest, le miniere sono chiuse, il lavoro viene dall’industria chimica e dal turismo. Edina e Daniel si sono trasferiti nel 2017. Quattro camere più soggiorno vista ciminiere, 92 metri quadrati al secondo piano di una palazzina bianca in un complesso per venti famiglie. Nell’area verde la domenica si fa il barbecue e i bambini giocano sull’altalena. In casa sfrecciano Eszter di 9 anni, Sara di 5 e Patrik di 3. Edina e Daniel aspettano il quarto figlio. Lei 38 anni, operaia, può restare in maternità finché il figlio più piccolo avrà otto anni, con uno stipendio fisso di 25 mila fiorini, circa 80 euro. Lui, 36 anni, trasporta rifiuti pericolosi in un’azienda 40 km più a nord per 330 mila fiorini al mese e nel tempo libero arrotonda facendo l’imbianchino. La famiglia Nagy è entrata nel programma di punta del governo nazionalista di Viktor Orbán per sostenere le nascite contro il tracollo demografico. La seconda fase, annunciata a gennaio, estende la legislazione in vigore dal 2015: ogni donna sotto i 40 anni che decida di sposarsi ha diritto a un mutuo agevolato, come pure i nuclei con almeno 2 figli (prima il prestito scattava al terzo e riguardava solo case di nuova costruzione). Le madri con almeno 4 figli non pagheranno tasse per il resto della vita; dai 3 figli in su arriva l’assegno per un’auto a 7 posti; previsti un contributo per i nonni che badano ai nipoti e la creazione di 21 mila asili nido. In 4 anni accolte 85 mila domande su 100 mila, per un costo di 220 milioni. Solo 500 famiglie hanno chiesto il sussidio senza avere ancora 3 figli: lo schema Csok ammette anche una semplice promessa, se però il terzogenito non arriva si restituisce il prestito. È la «legge del bimbo in attesa».
La casa di Edina e Daniel è costata 22 milioni di fiorini, 68.750 euro. Dopo un’analisi capillare di consumi e stile di vita hanno ottenuto in totale venti milioni, dieci da ripagare in vent’anni a zero interessi con rate inferiori al 50% del reddito familiare. «Ha deciso lui, io avevo il terrore di non superare l’esame e perdere anche l’anticipo – ricorda Edina —. Devi pianificare ogni cosa, essere in regola con le bollette e dimostrare di poter pagare le rate. Se non ce la fai in tre mesi ti tolgono tutto. Eravamo sul punto di divorziare ogni settimana». «Mi sono venuti i capelli grigi – aggiunge lui – ma ne è valsa la pena. Nella vecchia casa c’erano infiltrazioni di umidità, qui abbiamo tutto, persino il garage». Edina, pensa mai di tornare al lavoro? Risponde lui: «La madre deve seguire i bambini, anche senza il quarto non gliel’avrei permesso». «Per i figli devi rinunciare a qualcosa» sorride lei.
Il terrore dell’annichilimentoNel Centro-Est dei confini ridefiniti da guerre e alleanze, la demografia è da sempre arma politica. Il filosofo tedesco Johann Herder nel ’700 predisse che lingua e nazione magiare sarebbero state assimilate dai vicini popoli slavi fino a scomparire. Il terrore dell’annichilimento attraversa la storia ungherese e nel nono anno dell’era Orbán fare figli diventa una questione di sicurezza nazionale che si unisce all’altra grande emergenza populista: l’immigrazione. Blindare i confini significa dover contare solo sulle forze interne per spingere le nascite. Dal picco di 10,7 milioni del 1980 la popolazione è scesa a 9,7. Mentre nel resto dell’ex blocco sovietico la transizione democratica ha significato anche libertà di non avere bambini ma poi il tasso di fertilità è risalito, in Ungheria nel 2017 nascevano ancora 1,54 figli per donna.
Nelle vie di Budapest manifesti con giovani coppie, nonni amorevoli e bimbi sorridenti hanno sostituito i poster contro il presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker e il filantropo George Soros: quella campagna ha fatto saltare la pace fredda tra i Popolari europei e determinato la sospensione del partito di Orbán, Fidesz. «Non siamo stati sospesi, abbiamo congelato la nostra partecipazione perché non siamo più certi di riconoscerci nel Ppe che apre all’immigrazione e tradisce l’identità cristiana. Decideremo cosa fare dopo il voto» dice al Corriere Zoltán Kovács, segretario di Stato. Orbán valuta alleanze con Lega e sovranisti ma per l’Italia resta prioritaria la collaborazione sui migranti che Budapest rifiuta... «Matteo Salvini, definito dallo stesso Orbán un eroe, ha dimostrato che è possibile fermare l’immigrazione illegale se c’è volontà politica. La nostra linea non cambia, non condivideremo scelte irresponsabili di altri». La democrazia illiberale cerca nemici pubblici e lacera la società, non è pericolosa? «La democrazia non ha bisogno di definizioni ed è legittimata dalla volontà popolare. Non escludiamo nessuno ma sappiamo in cosa crediamo. La verità non è pericolosa, perché temerla?».
E la verità è ovunque. Una verità dogmatica e artificiale in piena luce che non ammette ombre né obiezioni. Il racconto ufficiale domina i mezzi d’informazione. Nel progetto di rifondazione identitaria al motto «Dio, patria, famiglia» il governo non esita a utilizzare la Storia alimentando la retorica della potenza mutilata dal Trattato del Trianon o rivendicando il ruolo di baluardo contro l’avanzata ottomana, la lotta dell’indomito spirito magiaro per l’indipendenza dall’Austria e la rivoluzione antisovietica del 1956.
«Tutti i tiranni ricreano il passato e tutti i governi mentono, c’è una parte di verità in ogni menzogna». Ágnes Heller siede sul divano di velluto verde nella sua casa che guarda il Danubio. La grande filosofa ebrea sopravvissuta all’Olocausto, allieva di György Lukács e interprete del marxismo in chiave etica, fuggita dall’Ungheria poi tornata nel 2009, di contraddizioni ne ha superate. Questa campagna per la famiglia, dice, si fonda su un calo demografico incontestabile «ma come risponde il potere, che ha a cuore solo la propria sopravvivenza? Con un piano destinato a moltiplicare le famiglie indebitate e che poggia su presupposti antropologici pericolosi, poiché legittima l’idea che si stia insieme per interesse riportando le donne a una divisione di ruoli che le ingabbia: madre a casa, padre al lavoro. Questo quadro valoriale però non attrae le classi bianche agiate alle quali erano rivolti gli incentivi e che sono più corteggiate dagli etno-nazionalisti. La bio-politica fondata sull’ethnos è quanto di più vicino al razzismo possa produrre la società ed è un rischio per tutti».
Anima e corpoÉva Koppányi, 47 anni, prega nella chiesa dei Santi angeli da dove Apostol Televízió trasmette la messa. «Oggi le persone inseguono i beni materiali e cercano risposte nel New Age. Dobbiamo aiutarle a incontrare Dio e a costruire famiglie che crescano nella fede». La battaglia per la spiritualità coinvolge direttamente la famiglia del premier, calvinista con moglie cattolica e 5 figli. Il secondo, Gáspár, ha in comune con il padre passione per il calcio, talento oratorio e una nazione da salvare: nel 2015 ha fondato una chiesa pentecostale per avvicinare i giovani a Cristo, Felház, Casa. Nel 2011, atto istitutivo dell’era Fidesz contro il verbo universalista dell’Europa senza radici fu l’adozione della prima Costituzione democratica scritta: la nuova Legge fondamentale introduce nel preambolo l’orgoglio dell’Ungheria cristiana nata con il primo re, Santo Stefano, e tutela la vita «dal momento del concepimento».
L’emancipazione femminile non è mai stata una priorità per i governi post-1989, che hanno ereditato una società sessista malgrado l’esaltazione socialista della parità uomo-donna: nel quotidiano ruoli e gerarchie del patriarcato restavano immobili. «Tutti i regimi oppressivi sono patriarcali – dice Györgyi Tóth di Nane, associazione per i diritti delle donne —. Due fattori possono spingere le nascite: percorsi di rientro al lavoro per le madri e condivisione dei compiti con i compagni. Nulla di tutto questo accade oggi in Ungheria. La politica, con una retorica compiacente scambiata per rispetto, promuove vecchi stereotipi sulle brave amministratrici dalla lacrima facile. Così non si affrontano i veri problemi come la voragine che ci separa dagli uomini per stipendi e prospettive di carriera. Chi può, va via».
In seconda classe«Tutto è propaganda, le campagne governative sono pagate con miliardi pubblici ma nessuno scandalo – spiega Eszter Farkas, 31 anni, ricercatrice alla Ceu, l’università finanziata da Soros e costretta a trasferire parte dei corsi a Vienna —. Per mantenere la polarizzazione sociale chi sta al potere non bada a spese, tanto il denaro fa sempre gli stessi giri». «Viviamo in una bella favola che non è per tutti – dice Attila Krsjak, 37 anni, marketing manager e attivista gay per la prevenzione dell’Hiv —. Se non appartieni alla tribù giusta sei fuori, non in modo ufficiale ma poco a poco diventi un intruso nella tua città, ti guardano quando tieni per mano il tuo compagno, le associazioni Lgbt non trovano spazio per i progetti nelle scuole e il Gay Pride sfila dietro le transenne». Una visione sociale che produce surreali blocchi burocratici, come per la piccola tribù di Zoe Maria (sei mesi), mamma Veronika (30 anni) e papà Janos, che lavora in banca e a 36 anni fa i conti: un divorzio, 2 famiglie, 4 figli. «Il sistema non ha collegato il mio nome a due donne e il sussidio per Zoe è rimasto congelato».
Vera Somfai, 36 anni, manager di risorse del personale, è single. «Non per scelta, non ho trovato quel tipo di stabilità. Oggi mi definisco una nomade digitale, la mia vita mi piace, ho i miei spazi e i miei silenzi. Ma qui non si costruisce il futuro. Se non ti allinei finisci in seconda classe, hanno persino proposto di tagliare del 40% la pensione a chi non ha figli. Il sistema sanitario è a pezzi, in provincia ho visto bruciare plastica e rifiuti per riscaldare le case. In città i problemi si rimuovono e le persone sono sempre più aggressive. C’è chi protesta ma la maggior parte non si oppone all’odio che monta, per 50 anni questa gente non ha potuto parlare e adesso tace. Quasi tutti i miei amici sono andati via, io resto».