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 2019  maggio 13 Lunedì calendario

Castellitto gira l’ultimo film di Scola. Intervista

Un drago a forma di nuvola era l’ultimo film immaginato da Ettore Scola. Divenne invece un fumetto, illustrato da Ivo Milazzo, pubblicato sei anni fa. Ora spetta a Sergio Castellitto, che con il grande regista scomparso nel 2016 ha condiviso due film — La famiglia e Concorrenza sleale — e una lunga amicizia, portare al cinema la storia del libraio parigino (in origine un ruolo pensato per Gerard Depardieu, ora incarnato dallo stesso Castellitto), che vive recluso con la figlia paraplegica (Matilda De Angelis) e un cameriere italiano (al posto di Massimo Troisi il rapper Clementino), alla cui porta bussa una nuova possibilità d’amore che ha il volto angelico della giovane Yolande (Bérénice Bejo). Prodotto da Rodeo Drive e Rai Cinema, «questo trattamento lungo che Ettore scrisse con Furio Scarpelli e poi con la figlia Silvia Scola, racchiude il cuore di tutta la sua poetica, la commedia in bilico tra malinconia e ferocia», spiega Castellitto, nella sua casa romana che è un’oasi di silenzio, luce e verde. «Quando è arrivata la proposta ho capito che era un’occasione epocale, per me. Anche un modo per lavorare ancora con Ettore, che è stato un mio maestro». Le riprese del film, titolo provvisorio Un drago a forma di nuvola — Il materiale umano, partono il 27 maggio.

Quando siete diventati amici con Scola?
«Mi chiamò per un ruolo in La famiglia, che stoltamente rifiutai perché volevo andare in vacanza. Due settimane dopo me ne offrì un altro e Margaret (Mazzantini, moglie di Castellitto, cura la sceneggiatura, ndr) mi disse "fallo, non partiamo". Così sono diventato il famoso Carletto che prende gli schiaffi da quelli che entrano. Da attore emergente ci vidi anche un affettuoso annuncio, nell’interpretare il nipote di Vittorio Gassman».
Il ricordo più forte di quel set?
«Giravamo nell’appartamento ricostruito a Cinecittà. La scena in cui Carletto torna da un viaggio giovanile, si ferma in corridoio e tira fuori un turacciolo che copre un buco nel muro, con cui giocava da bambino. Mi inginocchio, lo tiro fuori, lo guardo. Sento la voce di Ettore: "Non lo devi guardare, lo devi ricordare". Così si dirigono gli attori, soffiando in loro, come nel vetro, delle verità. È stata la prima volta che mi sono sentito diretto».
Quel film andò a Cannes.
«Salimmo la scalinata del Palais. Avanti le star, Gassman, Sandrelli, Ardant, dietro il mucchio selvaggio di noi emergenti, Occhipinti, Tognazzi, Dapporto, con gli occhi fuori dalla testa. L’anno dopo torno al Festival con Paura e amore di Von Trotta, sulla Croisette mi sento chiamare: Ettore, presidente di giuria, mi chiama dall’auto con le bandierine, la sua famiglia dentro. "Sali": faccio il viaggio seduto sulle ginocchia del presidente».
E poi ci fu "Concorrenza sleale".
«Giravamo una scena molto divertente, Abatantuono aveva finito il suo primo piano ed era partito, io dovevo ancora girare il mio, eravamo a Cinecittà. Arriva la notizia della scomparsa di Vittorio Gassman, Ettore sta zitto per molto tempo, poi mi guarda: "Ti do io le battute di Diego". Ho passato un pomeriggio a ridere in faccia a Ettore, malgrado il nostro dolore».
Si sente suo allievo?
«Sì, e voglio girare questo film col cuore di uno studente tumultuoso. Lasciando, come faceva lui, una finestra socchiusa, una possibilità di racconto che nasca da un’intuizione che ancora non conosci. Parto da una Parigi ricostruita al Teatro 5 di Cinecittà, come faceva Ettore».
Come avete lavorato sul testo?
«Ho consegnato il testo nelle mani di Margaret che ha dissotterrato l’umorismo, la malinconia, la miseria e la nobiltà di personaggi, trasformando quel "drago a forma di nuvola" in materiale emotivo. Più dinamico e contemporaneo. Un melodramma minimalista... Riprodurre un mondo senza aver paura del suo anacronismo, anche perché quello di oggi che si finge modernissimo a me spesso sembra fermo. I miei personaggi sono chiusi in un fortino, protetti dai libri, da quella letteratura da cui si succhia vita. Ora stiamo scegliendo le pagine che il libraio leggerà alla figlia per lenirle la solitudine. Non saranno citazioni colte: Woody Allen nei suoi film non sceglie mai una citazione che non sia riconoscibile. Se parla di Nietzsche dice la cosa che tutti sanno di lui, non un misterioso aforisma...».
Più faticoso o più facile dirigere e recitare insieme?
«Più divertente. Intanto sono in trincea con gli attori. Ricordo con Penélope Cruz in Non ti muovere ero lì che la dirigevo a un palmo da me, in Venuto al mondo invece ero troppo lontano. Sono un artigiano: sul set prendo lo scalpello e mostro come si scolpisce, poi lo ripasso all’attore».
Commedia o dramma?
«Si riderà e si piangerà, spero. Ci saranno silenzi, conflitti, umorismo. Io dico sempre: la vita ci punisce, il cinema può farci soffrire ma da qualche parte ci deve premiare».
Nel suo film non ci saranno computer, cellulari, tablet.
«Sono convinto che i social finiranno. Non so tra quanti anni o decenni. Ma tutto questo si polverizzerà. Perché è un prodotto che brucia con troppa velocità, non solo i messaggi che manda ma anche i contenuti».
I libri, invece, non finiranno?
«No. Da Omero a Roth. E il teatro non finisce da 4mila anni. Mi sono riletto Flaubert, Maupassant e altri scrittori francesi. Erano popolari e profondi. Questa è la scommessa, fare dono di una storia che dentro nasconda sentimenti e pensieri che ti riguardano, che tu sia intellettuale o commessa. Per questo io reputo la tv spesso ferocemente non diseducativa ma addirittura pornografica, perché alcuni programmi ci fanno pensare che i rapporti umani siano quelli. Invece sono infinitamente più complicati e più semplici, nella loro complessità, di quella finta articolazione che la tv spesso pretende di raccontarci. Io credo nel cinema nobile e popolare. E non vedo perché un pubblico minimo debba essere considerato migliore di un pubblico vasto. Sono uno spettatore basico, gioviale. Faccio i film che vorrei andare a vedere. E pago sempre il biglietto».