Cosa vuol dire per te sopravvivere?
«Far trascorrere le giornate nel modo meno complicato possibile. Da bambina le complicazioni erano all’ordine del giorno».
Perché, com’eri da bambina?
«Vivace, lo sono sempre stata. I miei ebbero un solo soprassalto perché quando nacqui, in quei primi giorni di agosto, nella bassa mantovana di Quistello, fui assediata dalle zanzare. Decisero di portarmi in collina e quell’anno, dopo il fatidico 8 settembre, mio padre ufficiale italiano fu fatto prigioniero dai tedeschi e trasferito in un campo di prigionia in Polonia, dove conobbe Giovannino Guareschi. Tornò a casa nell’ottobre del 1945. E dopo poco ci trasferimmo nella grande casa milanese dei nonni».
Estrazione borghese?
«Tutti bene educati, colti, eleganti. Ma senza un soldo. Mio padre destinato alla diplomazia, finì col fare altro. Si specializzò in elettronica. Insieme a mio zio progettarono i primi sistemi informatici: macchine piuttosto rudimentali ma utili soprattutto per gli ospedali. Quella ventata di ricchezza spinse i miei a lasciare la vecchia casa dei nonni per un’abitazione più moderna. Era il 1951».
Tu avevi 8 anni.
«Andavo a scuola dalle marcelline, poi il liceo Parini, infine l’università. Mi laureai in geografia umana con Lucio Gambi».
È stato uno dei grandi geografi italiani.
«Un uomo adorabile, di origini romagnole, partecipò giovanissimo alla resistenza. Fu Gambi a farmi insegnare in una scuola media della periferia milanese. A quel tempo cominciai la mia prima traduzione dall’inglese, per Einaudi, di Megalopolis
di Jean Gottmann, un migliaio di pagine su cui sudai un anno intero ».
Volevi fare quello di mestiere?
«Ero stata qualche mese in Inghilterra, ma non avevo le idee chiare. Subito dopo la maturità lavorai nella libreria Einaudi diretta da Vando Aldrovandi, cognato di Giulio Einaudi e uomo meraviglioso. Lì conobbi Vittorini che mi chiamava Miele e poi Eco e Filippini. Erano un po’ l’essenza della cultura milanese».
Com’era quella Milano?
«Bellissima, c’erano ancora le latterie dove, con mia madre, ci davamo appuntamento per uno spuntino. Lei lavorava come lessicografa da Garzanti. Si separò da mio padre nel 1969. Mi dispiacque, era una coppia molto bella».
Vuoi dire che ti pesava la separazione?
«Al momento fu come un pugno. Poi ti abitui. Pensi: chi sono io per giudicare. Oltretutto, il mio primo matrimonio avvenne che ero giovane e non immaginavo che sarebbe durato solo quattro anni».
Che età avevi?
«23 anni e lui, Massimo Magrì, era un esperto del cinema pubblicitario. Quando ci lasciammo cominciai a lavorare alla Olivetti con Renzo Zorzi. Avevo anche fatto domanda per la borsa Fulbright e la vinsi. Dovetti scegliere se restare in azienda o andare alla Stanford University per un anno. Zorzi mi disse che non voleva perdermi, che la Olivetti avrebbe contribuito alle spese sperando di riavermi».
Pensa se una cosa del genere accadesse oggi.
« Sarebbe un miracolo. Ma la Olivetti era qualcosa di unico. Adriano era morto da tempo ma, anche se lieve, lo spirito dell’utopia continuò per un po’ a soffiare».
Soffiava anche su di te?
«Avevo mancato tutti i grandi appuntamenti. Per me lo spirito di rivolta era quello dei campus americani. Alla rivoluzione preferivo l’amore. Prima di partire per l’America avevo conosciuto Claudio Cassinelli, un attore, bello e simpatico. Viveva a Roma e fu il motivo per cui alla fine decisi di lasciare Olivetti e Milano. Arrivai nella capitale nel 1975 in piene elezioni ammini-strative, che furono trionfali per il Pci. Poi all’inizio del 1976, grazie a Gianluigi Melega e a Enrico Filippini fui presa a Repubblica ».
Come diventasti critico cinematografico?
«Un po’ per caso e un po’ per le competenze che avevo sviluppato in America. Il caso volle appunto che Tullio Kezich andasse via. Per sostituirlo Scalfari pensò prima a Umberto Eco e poi a Susan Sontag. Ma per quanto prestigiosi, i loro nomi erano inadatti a coprire la cronaca. Il direttore mi convocò annunciandomi la decisione di affidare a me la critica cinematografica. Ero spaventata».
Perché?
«È un mondo diviso per bande. Agguerrite e cattive».
Non ti è andata male.
«Imparai a difendermi».
Come?
«Una volta incontrai Iosif Brodskij a Venezia e passeggiammo a lungo. Aveva 47 anni, tre infarti e un paio di bypass. Era ancora bello e inquieto. Ma anche affaticato. Gli chiesi come era riuscito a farcela. Come era riuscito a portare a casa la pelle dopo che il regime sovietico lo aveva infamato e chiuso in un ospedale psichiatrico. Semplice: bisogna imparare ad essere degli schiavi disobbedienti. Ecco, nella critica dovremmo diventare così».
Chi è un critico?
«È un individuo coraggioso, sicuro di sé, costretto a prendere decisioni e a emettere sentenze di cui si può pentire cinque minuti dopo averle scritte».
Ti sei mai pentita di quello che hai scritto?
«Certo, mi viene in mente il grande scazzo su Al di là delle nuvole, su cui scrissi una rispettosa stroncatura, ma tale da suscitare le ire di Antonioni. Per anni si rifiutò di incontrarmi. Poi lo vidi a una cerimonia in Campidoglio. Non parlava più. Mi fece cenno di avvicinarmi e mi diede un bacio».
Sei anche tu dell’idea che la sinistra abbia egemonizzato il cinema italiano?
«È un fatto che prescinde dalla bravura incontestabile dei registi. Uno come Pietro Germi, grandissimo, per non essersi mai allineato non ha avuto tutti i riconoscimenti che meritava. I film di Zurlini, Pietrangeli o Zampa sono stati per lo più cancellati dal nostro orizzonte».
E Fellini?
«Avevo un rapporto da zio a nipote, veniva a cena da me o andavo io al ristorante. Che dire? Era l’uomo, come scrisse Flaiano, che aveva innalzato la bugia a verità in incognito. Il suo mondo oscillava tra via del Babuino e via della Croce. Il suo regno Cinecittà, dove le maestranze lo ricevevano come un sovrano o un salvatore».
Hai conosciuto anche molti registi americani.
«Dai meno noti ai più importanti. Quello che mi spalancò la sua casa a nord della contea di Los Angeles fu Robert Altman. Poteva passare da un capolavoro come Nashville a un disastro come Follia d’amore. Alla fine degli anni Ottanta incontrai a New York Martin Scorsese. Era appena uscito L’ultima tentazione di Cristo, mi sembrò letteralmente terrorizzato dalla reazione che in America si era scatenata da parte dei fondamentalisti evangelici. A Los Angeles conobbi Billy Wilder. Il suo inglese fluviale conservava l’accento viennese. Era buffo».
E che altro?
«Addolorato. In quel 1993 stavo davanti a un uomo che aveva infilato una serie di capolavori assoluti e che non riusciva più a lavorare. Hollywood gli aveva chiuso le porte. Mi disse: io non ho bisogno di soldi, ma degli studios per respirare. Se non ho quell’aria muoio. La fabbrica dei sogni per lui era diventata un incubo».
Cosa non funzionava più?
«Avevano smesso di capirlo. Mi diede una definizione semplicissima del suo cinema: regia invisibile, niente stranezze, niente preziosismi e soprattutto una grande sceneggiatura. Se c’è una sceneggiatura forte, anche un pessimo regista può ricavarne un bel film. Ma anche un grande regista fallirebbe con una brutta sceneggiatura».
A proposito di scrittura hai incontrato molti personaggi della letteratura. Senza fare un elenco chi sono stati quelli con cui ti sei trovata meglio?
«Su tutti Márquez. Fu Gillo Pontecorvo a introdurmi a lui. Andai a trovarlo a Cartagena e portai come dono un grande spicchio di parmigiano. Gabriel era una persona semplice. L’enorme successo non gli aveva cambiato le abitudini. Poi John Le Carré: un perfetto gentiluomo inglese che viveva in una tradizionalissima casa britannica nel verde di Hampstead. Tanta tranquillità contrastava con quello che diceva. Era il 2001 e ce l’aveva con le multinazionali, con la perdita del peso democratico. Con lo sfruttamento dell’Africa. Pareva un indignato prima maniera».
Era passato dalle spie della guerra fredda agli intrighi capitalistici.
«Aveva perfettamente capito i pesanti risvolti negativi della globalizzazione».
Uno scrittore globale fu Borges.
«La prima volta lo vidi in una libreria di New York. Glielo ricordai in un nostro incontro privato. Per essere uno scrittore che odiava la folla, la pubblicità e la fama, fece bingo e si trovò implicato in tutte e tre le cose. Diceva che esistevano due Borges: uno pubblico che lui detestava e l’altro timido, cui pochi avevano accesso. Nella cecità dava libero sfogo a una strana malinconia. In qualche modo simile a quella di Osvaldo Soriano».
Che forse aveva fatto tutti i mestieri tranne il bibliotecario.
«Era un provinciale di Mar del Plata, aveva lavorato come meccanico, poi calciatore di serie minori, giornalista sportivo, infine scrittore. Dicevano che si vantasse di non aver letto un solo libro fino a trent’anni. Ma nei suoi libri c’era l’infinito amore per la vita».
Tra le scrittrici donne?
«Alice Munro, mi disse che aveva adottato il nome del marito perché il suo non le piaceva e che da giovane mandava in giro raccontini sperando che qualcuno la prendesse sul serio. Poi Susan Sontag, diventammo un po’ amiche. Ha scritto bellissimi libri per aspiranti intellettuali».
Le piaceva molto la cultura europea.
«L’adorava, soprattutto quella delle fucine parigine. L’incontro più sorprendente però lo ebbi a Princeton quando conobbi Nina Berberova. Mi parlò di lei sedicenne nel pieno della rivoluzione russa, dell’amicizia con la Achmatova e Majakovskij. Degli anni durissimi in Urss e del suo progetto di tradurre in russo The Waste Land di Eliot. Prima di congedarmi mi disse: sa che un amico di famiglia era lo scrittore Gonciarov. Un giorno dimenticò nella casa del nonno il suo portafogli, gonfio e bisunto. “Cominciai a mordicchiarlo e sapeva di pollo”. Gli esuli hanno un modo tutto loro di raccontarsi».
Un esule a suo modo fu anche Cioran.
«Mi disse che Parigi era la città ideale per un fallito».
Così si viveva?
«Pensava di avere una filosofia da macrò. Uno che per il proprio tempo libero era disposto ad essere perfino un parassita: per disporre del proprio tempo, cara signora, bisogna essere pronti ad accettare tutti i sacrifici, anche il disonore».
I tuoi sacrifici cosa sono oggi?
«Molta attenzione a quello che faccio: farmaci, fisioterapia, pazienza. Non sono proprio anni felici».
Cosa ti è mancato o cosa non ti aspettavi?
«Mi è mancato prima Claudio, morto durante la lavorazione di un film nel 1985. Era su un elicottero che precipitò in Arizona. A quel tempo mi risollevai grazie al giornale. Davvero Repubblica è stata a lungo la mia casa, la mia famiglia. Insieme a Giovanni, mio figlio. Poi ci rivedemmo con Gigi Melega. Sono quelle situazioni che non ti aspetti. Qualche anno di differenza. Entrambi adulti. Abbiamo trascorso periodi molto belli. Lui è morto quattro anni fa. Credevo molto nella sua saggezza, ma non era saggio, dava l’impressione di esserlo. Un adorabile testone di ingegno».
E dopo?
«Ho continuato molto casualmente a vivere, avendo la sensazione di non essere più in debito con la vita. Poi è arrivato il Parkinson, una malattia che ti toglie la libertà e questo genera insicurezza. Dipendi molto dalla gentilezza degli amici o dalla buona volontà degli sconosciuti. A volte penso che la vita mi abbia ingannato. Mi ha viziata sul lavoro. Mi ha detto prenditi questa parte di mondo felice, te lo regalo e io c’ho creduto. Il destino si è inventato cose che non mi sarei aspettata. Dopo due cancri poteva anche lasciarmi in pace. Che palle, amico mio. Che palle!».