12 maggio 2019
In morte di Gianni De Michelis
Filippo Ceccarelli per la Repubblica
Povero De Michelis, se n’è andato proprio quando lo stile di vita e di potere che egli ha incarnato, e che ai suoi tempi apparve irrimediabilmente eccessivo, si rivela ora non solo accettabile, ma a suo modo improntato anche a dignità politica e progettuale. Aveva 78 anni, ma stava male da tempo, sempre più spento; e rispetto alle smozzicate notizie che filtravano, è di consolazione pensare che in vita si è parecchio divertito, forse addirittura oltre le sue stesse convenienze, come può succedere a figure che hanno dato smalto e sostanza, animo, cervello e corpaccione a un vero passaggio d’epoca.
Destino comune di diversi ex giovani che alla metà degli anni 70 del secolo scorso, sotto l’imperiosa guida di Bettino si presero un partito tanto antico quanto sonnacchioso e lo portarono al top del potere per poi schiantarlo nell’abisso, tra furore e vergogna, ma forse sarebbe accaduto lo stesso, anche se i necrologi non si fanno con i forse.
E comunque: «Nullatenente ad alto reddito» si definì un giorno; fra i primi ad ammettere «il piacere del comando» e la disponibilità a «lasciarsi affittare in piena coscienza come un frac». Dalla metà di aprile (presso la Fondazione Giuliani, a Testaccio) un artista contemporaneo sensibile e attento alle trasformazioni della società italiana come Francesco Vezzoli ha ingrandito e racchiuso in cornici barocche 28 iconiche foto degli anni ’80 battezzando il suo progetto "Party politics", e Gianni De Michelis è naturalmente uno dei protagonisti. Eccolo con un’opalescente Sandra Milo celebrare la resurrezione della carne, oppure con Tinto Brass, eros & craxismo, o colto a tavola, nel più furbo dei sorrisi, accanto a Isabella Rossellini.
Grifagno, arruffato, sanguigno, straripante, estroverso. Famiglia protestante, studi di chimica, lotte operaie a Porto Marghera, l’accademia manovriera della politica universitaria, poi il Psi, corrente lombardiana. Nel 1980, con mossa a sorpresa, molla i giovani strateghi della Sinistra per salvare Craxi, allora a rischio. Divenuto responsabile organizzativo del Garofano, senza troppi scrupoli costruisce addosso al leader un’armatura a prova di dissenso e con articolazioni feudali. Per premio diventa ministro: Partecipazioni statali, Lavoro, Esteri. Seguono leggi, progetti, nomine, trame di potere, agguati in Parlamento, coraggiosi tour nelle fabbriche, inaspettati applausi, ma anche grottesche fughe per sfuggire all’ira delle maestranze, di corsa con pancione ballonzolante, come in un cartone animato.
Mille e mille altre sequenze si sedimentano nella memoria di quella abbagliante stagione che senza remore va a collocarsi sotto i riflettori del binomio genio-sregolatezza. I capelli lunghi: «E no che non me li taglio!» (in un film Alberto Sordi riprese la battuta); il ballo da orso tarantolato, «fino a quando il sudore non entra negli occhi», con l’attricetta affamata di notorietà; le feste in costume nella casa ormai senza mobili di Venezia, e poi anche in giro per il mondo, da Budapest ad Hanoi. E ancora il gusto di farsi tornare utili le potenze del desiderio e dell’ebbrezza, l’energia ipercinetica e vorace, le visioni, le intuizioni, le suggestioni, le adunanze del morbido, profumato, strabordante staff femminile sugli enormi tappeti del Plaza con la premurosa regia del portiere Gigino Esposito, la copertina pop vintage del libro sulle discoteche (Dove andiamo a ballare questa sera?, Mondadori, 1988: venne poi fuori che se l’era fatto scrivere da una segretaria che poi lo denunciò), ma nel frattempo presentato al “Bandiera gialla” di Rimini alla presenza di ministri e ballerine Oba Oba con il pennacchio sul sedere...
oh, come tutto è destinato a consumarsi!
E infatti quell’esperienza si bruciò nell’arco di una decina d’anni, forse meno.
Tangentopoli fu devastante, tutti i suoi arrestati e/o pronti a tradire, lui stesso rincorso per le calli di Venezia al grido di "Onto!", unto, sempre per via dei capelli, col pericolo di essere buttato in un canale. Non si riprese più.
Ma prima quel personaggione era apparso così potente, promettente, eccitante e divertente da farsi icona, emblema e metro di misura di un mutamento senza ritorno.
Perché giusto in quegli anni, a ripensarci, la politica in Italia cambiò senso e nozione, e proprio a Bettino, a De Michelis e agli altri di quel giro fu concesso l’amaro lusso e il fantastico privilegio di praticarla mostrandosi per quello che erano e finalmente chiamando le cose con il loro vero nome.
Più brutalmente: contro gli ipocriti moralismi democristiani, la mesta severità comunista e gli snobismi aristo-tecnocratici dei laici, forse senza saperlo, o magari rifiutando di ammetterlo, il craxismo oscurò per sempre la proiezione "religiosa" delle maggiori culture politiche. Game over, avrebbe potuto dire lui; "dopo", cioè nell’aldilà, vattelapesca che cosa c’era, l’importante è qui e ora, primum vivere, si vive una volta sola – e se così la morte diventa irreparabile, beh, è una faccenda che va ben oltre la politica, e Gianni De Michelis lo sapeva meglio di tanti altri.
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Giuliano Ferrara per Il Foglio
Pronunciato all’americana, Gianni è l’equivalente di Johnny. Per sfotterlo, lo chiamavano così i suoi amici una sera a New York, naturalmente conclusa in discoteca. Gianni De Michelis (1940-2019) era colto e allegro, uomo di stato e uomo privato confusi nell’opinione che se ne aveva. Sapeva di urbanistica, di organizzazione e lotta di partito, come manovrare tra le correnti, come vincere i congressi o perderli, e sapeva di economia e lavoro, tra i ministeri appunto il Lavoro e le Partecipazioni statali. Sapeva infine, lunga esperienza, le cose del mondo e delle nazioni e dell’Europa, agli esteri per cinque anni e firma italiana al trattato di Maastricht. Fu uno dei prodotti migliori, e squillanti, del socialismo italiano curioso, arruffone e in battaglia disordinata per difendere la propria indipendenza dai colossi democristiano e comunista. Era di un ottimismo chiassoso e autolesionista. Nel pieno delle inchieste di Milano sulla corruzione, che tutto travolgevano, un’ordalia del buoncostume e della folla adirata, zampettava iattante con la sua corpulenza, i suoi capelli lunghi e malcurati, le sue cravatte allentate, il suo ghigno sprezzante da miope, e nell’emiciclo della Camera ridimensionava la catastrofe della Repubblica dei partiti, dicendo imperterrito che si era solo rotto una gamba e in qualche mese tutto sarebbe stato risolto.
Non sapeva e non voleva salvarsi, aderiva al regime di Craxi senza identificarsi, mantenendo una sua autonoma originalità di riformista e di socialdemocratico, inseguiva il decisionismo con le cautele del dubbio, ma nel tempo fatale in cui si misurano gli uomini verticali non ebbe le esitazioni, gli opportunismi di basso conio, le infedeltà a sé stessi di molti altri: la piena lo travolse vivo e vegeto, lui non cercò di guadagnare la riva e non si immerse per riemergere, si lasciò investire dalla corrente maligna senza fare il furbo, il finto remissivo, l’italianuccio. Fece anche di più, rifiutò di appartarsi e scrivere una gran libro di esperienza e intelligenza, che era nelle sue corde, rifiutò di kissingerizzarsi. Si gettò a capofitto nel mondo sconfitto del socialismo dei sopravvissuti, e senza alcuna speranza continuò ad agitare la bandierina senza vento, a tenere la posizione, a sbatacchiarsi tra i relitti della sua storia, tra le schegge del troncone che bruciava e si consumava fino alla cenere. Fu un errore, ma di questi errori volontaristici e vitalistici è fatta la storia, e la gloria se sia possibile dirlo e pensarlo, del socialismo italiano.
Veneziani rinvigoriti dal trambusto giudiziario, gli stessi che lo trattavano compunti da Doge in laguna, gli davano del ladro nelle calli e sui ponti, sotto la luna indulgente e paziente inclinata sulle acque. C’è un filmato notturno di quella vergogna. Si intravede tra i canali, nell’ombra della sera, il suo volto spaurito e basito, ma era lo spirito infame e posticcio dell’epoca, appena dopo le sottigliezze, le grossolanità e i pasticci di un regime dei partiti che ora in tanti rimpiangono. Di quel regime è sopravvissuta per tanti anni la “cooperativa De Michelis”, com’era chiamata con una sfumatura di spregio: era una coorte di politici, tecnici, burocrati, funzionari, industriali, imprenditori, finanzieri, sindacalisti, e magari faccendieri e lobbisti che sapevano il fatto loro e sono stati strumenti della continuità sociale, statale e repubblicana anche dopo, molti anni dopo, la caduta del regime originario. Fu particolarmente detestato, per un periodo, perché la folla malmostosa intuiva che dietro la sua maschera non c’era solo un curriculum, e che curriculum, c’era anche un interminabile carnevale o carnovale fatto di curiosità, di donne briccone e charmantes, di humanitas, di buoni libri, di applicazione svogliata e di studio disinteressato. Che gran bel tipo era Gianni o Johnny De Michelis.
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Gian Antonio Stella per il Corriere della Sera
«Sono come un atleta che ha avuto una frattura. Per un po’ so che devo stare fuori. Ne prendo atto e buonanotte». Così la pensava Gianni De Michelis, dopo Tangentopoli. Mordicchiava la cravatta, roteava gli occhi al cielo e borbottava: «Boh, il reato di finanziamento illegale dei partiti è uno di quelli che vanno e vengono. Dieci anni fa non sarebbe venuto in mente a nessuno». Erano i primi anni Novanta. Non sapeva che, dopo quella frattura, non sarebbe più tornato in campo. Non sui campi che contavano, almeno. Certo, rastrellando un po’ di socialisti rimasti e appoggiandosi al Cavaliere sarebbe riuscito sia pure azzoppato, a tornare in Parlamento. Quello europeo. E poi alla Camera. Mai più, però, nei ruoli che sentiva suoi: «L’Italia sarà pure di serie B ma io sono comunque di serie A».
Il momento più umiliante della sua parabola politica, umana ed esistenziale infatti, non fu probabilmente quello della fuga per le calli di Venezia, la sua Venezia, inseguito da giovanotti che volevano spintonarlo in un canale al grido di «Ciapalo! Ciapalo! Onto! Onto». Acchiappalo! Acchiappalo! Unto! Unto! Quello più amaro fu il giorno in cui chiese di tornare in cattedra. A Chimica. La materia nella quale si era laureato e che, raccontano, insegnava da trascinatore. Accolto anche lì da mugugni e contestazioni, dovette prendere atto che era meglio andarsene. In pensione.
Ricordarlo ora solo come l’uomo che sfidò l’impopolarità liquidando il bubbone di Tangentopoli, in un’intervista a Gad Lerner, come «un’operazione inventata dai ladri per far fuori gli onesti», è ingiusto. Fu anche quello, si capisce. Ma non solo quello. Basti rileggere una testimonianza, in epoca non sospetta, di Ugo Intini, a lungo vicinissimo a Bettino Craxi, il «Re Sole» dei socialisti: «Gianni ormai era una macchietta. Appena arrivato in consiglio dei ministri iniziava a sbracciarsi e sudare e mostrar tabelle per convincerci che sullo stato sociale andavamo al disastro. Dopo dieci minuti capiva che non era aria e smetteva. Poveraccio, aveva ragione lui, ma in quel contesto, se avessimo proposto dei tagli saremmo andati al suicidio.» Era ministro del lavoro, allora. E aveva capito, a metà degli anni Ottanta, quelli in cui il debito pubblico schizzò verso l’alto, il baratro che avevamo davanti. La risposta può essere riassunta in una battuta di Craxi sui liberali: «Hanno fondato un’associazione per il taglio della spesa che ha per stemma le forbici. Il simbolo degli eunuchi».
Ma come, proprio lui, il professore veneziano che dopo essersi mostrato in quei frangenti tra i più attenti ai conti pubblici, arrivò negli anni d’oro a tirarsi addosso da Enzo Biagi il nomignolo di «avanzo di balera» per le notti in discoteca e i capelli sudati? Lui che avrebbe dato una festa per duemila invitati alla Marittima di Venezia allegrissima, incasinatissima, chiassosissima con le luci psichedeliche a frullargli i riccioli? Lui che per spegnere le sue 50 candeline avrebbe programmato una grande festa con duecento invitati in un castello fuori Praga rinunciando solo perché Craxi gli intimò l’annullamento o le dimissioni?
Lui. Perché Gianni De Michelis, ha rappresentato uno dei grandi sprechi della politica italiana. Un uomo di scintillante intelligenza, capace di impadronirsi in poco tempo delle lingue che gli servivano, di leggere i dossier a una velocità mai vista, di divorare un libro in una notte con la voracità con cui aggrediva i piatti meno dietetici. Insaziabile di cibo quanto era negli anni spericolati (poi raccontati nei dettagli da passeggere amanti notturne) insaziabile di donne. Questo era: l’uno e l’altro.
Uno sbruffone capace di dire «se convoco una riunione per parlare di qualsiasi cosa faccio un fischio e arrivano venti cervelli che Berlusconi se li sogna» e insieme uno che, dopo essersi lamentato di «trentacinque processi finiti in larghissima parte nel nulla o in condanne minori», riconosceva: «Ma certo che ho sbagliato, le pare che con quello che è successo non mi sia pentito di certi errori?».
Accettava via via la progressiva emarginazione e di colpo rialzava la testa: «L’autocritica l’ho fatta prima di tutti. Quando dissi: guardate che la fine del comunismo farà sì che la gente non sopporterà di pagare più la tassa implicita che ha pagato in nome della lotta al comunismo. Avevo già tutto chiaro. Gli unici che hanno fatto autocritica siamo noi...» «Politica, mai morale...», gli dissi. E lui: «Politica “e anche” morale».
«Il giorno in cui si tireranno le somme finali, come è stato dimostrato dai processi, si vedrà infatti non mi è rimasto un soldino nelle tasche», rivendicò un giorno. Riconosceva però d’aver fatto male a sottovalutare l’errore di presentarsi come un gradasso: «In dodici anni da ministro avrò avuto quattromila lettere anonime e l’80% se la pigliava coi capelli: “Onto!”, “Bisonto!”, “Lavati!”. Me ne fregavo. Sbagliai». Una impresa di acque minerali, donando parte del ricavato alla ricerca sul cancro, si spinse a sfruttare il suo faccione. Lui coi capelli lisci: «Liscia». Con un metro cubo di capelli ricci: «Gasata». Normale: «Ferrarelle».
Sui suoi anni alla Farnesina, resta indimenticabile una cronaca scritta di suo pugno da Edward Luttwak, consigliere strategico della Casa Bianca: «Alla conferenza della Nato indetta dal Center for strategic and international studies era accompagnato da: 1) una bionda avvenente con compiti non specificati sul libro paga di un’azienda di Stato, l’Eni, o forse del partito socialista italiano; 2) una brunetta con compiti non specificati anche lei sul libro paga di un’azienda di Stato o forse del partito socialista italiano...».
Vulcanico propugnatore del Mose (che pensava di realizzare in pochi anni), dell’Expo 2000 a Venezia con le isole galleggianti, dei Giacimenti Culturali come «petrolio dell’Italia», delle «date catenaccio» in grado di costringere il paese a obbedire al «partito del fare» contro il «partito del non fare», visse anni da Doge circondato da folle di amici, arrampicatori, architetti di grido, corteggiatrici, portaborse, faccendieri.
Negli ultimi tempi gli erano rimasti pochi amici fedeli, il figlio, i fratelli tra i quali Cesare, l’editore di Marsilio, morto pochi mesi fa... Che la terra gli sia leggera.
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Michele Valensise per La Stampa
Quando a luglio del 1989 Gianni De Michelis entrò come un ciclone alla Farnesina, sconvolgendo riti e ritmi consolidati della diplomazia italiana, anche l’Europa affrontava il vento forte di un cambiamento epocale. Al di là della cortina di ferro, stava per sgretolarsi l’intero sistema che aveva ingessato popoli e Stati per mezzo secolo. A Bruxelles si predisponevano ambiziosi piani di rafforzamento della coesione in seno alla Ue. Nel Mediterraneo si apriva qualche spazio di dialogo per un’inedita stabilizzazione.
Il neo-ministro degli Esteri impresse subito una sferzata all’azione diplomatica italiana. A quanti erano assuefatti alla cautela e al realismo un po’ rinunciatario della nostra politica estera, i disegni innovativi di Gianni De Michelis sfoderati con passione e vigore sembrarono velleitari anche per il suo stile irruente e poco convenzionale. Invece dietro quell’immagine fiammeggiante (flamboyant, dicevano gli anglosassoni) c’era un’attenzione puntuale per gli equilibri internazionali, una visione acuta delle dinamiche in corso, una consapevolezza del ruolo che l’Italia avrebbe potuto svolgere con opportune sponde e sinergie.
Nascono da questa originale miscela di motivazioni personali e intuizioni strategiche alcuni importanti indirizzi della politica estera di De Michelis. È sua la creazione della «Quadrangolare», formato di collaborazione tra Est e Ovest mai sperimentato prima, tra Italia, Austria, Jugoslavia e Ungheria, embrione di più ampie intese. Per il ministro veneziano, che avvertiva già i rischi di dissoluzione della Jugoslavia e di disintegrazione del mondo orientale, l’iniziativa serviva a tenere insieme paesi diversi, ma uniti dal comune interesse all’integrazione regionale, e a favorire una «Jugoslavia unita e democratica».
Intuizione lungimirante, infrantasi poi contro la corsa affrettata di Germania e Vaticano al riconoscimento dell’indipendenza di Slovenia e Croazia. E fu la guerra, mentre De Michelis, compreso da pochi, aveva visto le potenzialità di una rete di stabilizzazione dell’area balcanica e adriatica, che tra l’altro cercò di preservare con una drammatica missione nell’area (giugno 1991). Come aveva percepito, senza i timori o le riserve di altri, la spinta verso la riunificazione tedesca, che considerava tassello dell’integrazione del continente e di consolidamento del rapporto euro-atlantico, per lui fondamentale.
Seppe guardare in profondità al Mediterraneo, anticipando lo sbocco degli accordi di Oslo (1993), con l’obiettivo di una conferenza su sicurezza e cooperazione nel Mediterraneo, poi tradottosi nell’avvio del processo di Barcellona (1995), dove tra molte speranze si riuscì a far sedere allo stesso tavolo Paesi arabi e Israele. Di quest’ultimo De Michelis aveva coraggiosamente propugnato un «ancoraggio» con l’Ue, non per sostenerne le posizioni ma per incoraggiare Gerusalemme a concessioni sostanziali ai palestinesi.
Esce di scena un uomo complesso, vitale e generoso, discusso per tanti aspetti, ma di cui è giusto ricordare l’intelligenza politica, al pari della passione per l’affermazione di principi fondanti e nostri interessi legittimi sulla scena internazionale. Specie in una fase nella quale la capacità di analisi e di azione in Italia e in Europa non brillano.