La Stampa, 12 maggio 2019
Campagna elettorale tribale
Nella campagna elettorale italiana la sfida fra le tribù populiste ha preso il sopravvento sul confronto sull’Europa confermando che il nostro Paese è un laboratorio di brusche novità nella stagione della protesta del ceto medio.
La campagna elettorale in corso ha in palio i seggi per il Parlamento di Strasburgo e - pur in coincidenza con elezioni regionali e comunali di forte valore politico nazionale - chiama i concorrenti in campo ad offrire agli elettori soprattutto ricette per l’Unione europea. È un terreno mai così attuale perché i vincitori delle elezioni del 4 marzo 2018 - M5S e Lega - hanno dedicato gran parte degli undici mesi di governo ad imputare alle istituzioni di Bruxelles ogni sorta di errore e mancanza a danno del nostro Paese. Così come i principali partiti di opposizione - Pd e Forza Italia -si sono più volte eretti a difensori dell’Ue dagli assalti gialloverdi. Ma, a dispetto di tali premesse, la sorte dell’Ue è quasi totalmente assente dal dibattito elettorale: la maggioranza non presenta programmi per migliorarla, riformarla così come l’opposizione non è portatrice di idee per renderla più credibile. Insomma, i partiti italiani sono lacerati sull’approccio all’Europa ma ne parlano poco e male.
Il risultato è la totale assenza del nostro Paese nel dibattito pubblico in corso in altre nazioni - dalla Spagna alla Germania, dalla Francia alla Polonia -sulle riforme che servono nell’Ue per affrontare le due emergenze all’origine della rivolta del ceto medio nelle nostre democrazie: le diseguaglianze economiche e l’integrazione dei migranti. E si tratta di temi di entità tale che richiedono soluzioni collettive perché nessuno dei Paesi Ue - Italia inclusa - da solo ha risorse sufficienti per affrontarli nei prossimi anni con una qualche possibilità successo.
L’assordante silenzio sull’Europa nella nostra campagna per le europee trova la sua spiegazione nella tipologia di sfida a cui stiamo assistendo: al centro della competizione non c’è lo scontro fra maggioranza e opposizione ma dentro la maggioranza, i cui due soci fondatori di combattono con le tre tecniche che distinguono i conflitti tribali. La prima è additare dei nemici contro cui battersi senza tregua: nel caso del Movimento Cinque Stelle si tratta dei razzisti corrotti identificati nella Lega di Matteo Salvini mentre per la Lega si tratta dei migranti che aggrediscono le nostre coste e ci rendono insicuri. La seconda è esaltare senza limite l’identità dei propri leader in quanto emblemi del Bene contro il Male, come si evince facilmente dalla delegittimazione reciproca quotidiana fra pro-Salvini e pro-Di Maio. Infine la terza: la ricerca costante di ragioni di scontro per generare una situazione di conflittualità permanente, all’evidente fine di consolidare i rispettivi campi a scapito dell’altro. Ovvero, l’obiettivo non è trovare compromessi ma prolungare i conflitti perché garantiscono continue prove di forza.
Nell’Italia divenuta laboratorio del populismo di governo in Europa a seguito del voto del 2018 ciò lascia intendere come la modalità di convivenza fra Lega e Cinque Stelle è il conflitto - e non la cooperazione - in quanto consente di rivaleggiare per contendersi un elettorato conquistato per protestare e demolire, non per costruire o innovare. E sotto questo punto di vista può essere un anticipo di cosa potrebbe avvenire fra Stati a guida populista e sovranista: destinati non a lavorare assieme ma a sfidarsi senza interruzione.
Nulla da sorprendersi se gli ambasciatori dei Paesi partner ed alleati accreditati al Quirinale continuano ad inviare alle rispettive capitali telegrammi segnati da una crescente preoccupazione sull’evoluzione del populismo nel nostro Paese. Ma avranno ancora molto da scrivere: la sfida fra le tribù è solo all’inizio.