La Stampa, 12 maggio 2019
Il vertice della Fao per le etichette
Domani ad Ottawa in Canada è prevista la riunione del comitato etichettatura alimentare del Codex Alimentarius (organismo della FAO) dedicata alla discussione ed eventuale adozione di linee guida per etichette con indicazioni nutrizionali. Ad ora nel progetto non ci sono riferimenti specifici a «colori», ma si dice che l’etichetta nutrizionale può includere simboli, elementi grafici, testo o una combinazione di questi elementi. L’Ue ha trovato una posizione comune dove sono stati evitati i riferimenti originariamente proposti lasciavano intendere un al semaforo ed al nutriscore. Adesso resta da capire se questa posizione comune sarà mantenuto o se prevarranno interessi nazionali. L’Italia ha una posizione univoca e bipartisan: no alle etichette a semaforo.
Sul tavolo, resta, comunque, il tema di come tutelare l’export del made in Italy agroalimentare. Una delle soluzioni possibili è contenuta all’interno del rapporto sull’industria alimentare in Italia della Luiss Business School presentato agli stati generali di Federalimentare. «Il made in Italy è riconosciuto ovunque come un vero e proprio brand, sinonimo di qualità grazie a un insieme di fattori tra cui il più importante è il prodotto, risultato della trasformazione di ingredienti semplici ma di elevato livello, integrati attraverso un processo produttivo e un know how unico al mondo». Ma ci sono anche delle criticità, a partire dalla frammentazione delle imprese che in maggioranza (98%) sono pmi e anche micro – solo l’1% della totalità con più di 250 dipendenti – e che «avrebbero necessità di presentarsi sui mercati esteri come un sistema produttivo compatto e portatore di valori unitari, anziché come un agglomerato di brand differenti».
Secondo Ivano Vacondio, presidente degli industriali del settore, «il made in Italy è un patrimonio che dobbiamo salvaguardare. Il mondo dell’impresa è consapevole di questa necessità e per questo abbiamo bisogno della politica». Le istituzioni ci devono aiutare a trovare mercati nuovi anche attraverso la promozione di un marchio che ci leghi tutti e che si affianchi ai brand aziendali». Dunque, «quello che ci lega tutti è il Made in Italy e la bandiera italiana».
Giorgio Mercuri, presidente dell’alleanza delle cooperative agroalimentari, la vede così: «Per capire l’utilità di avere un brand “Italia” può venire in aiuto l’esperienza del vino italiano in Cina dove le nostre aziende sono arrivate forse in ritardo e in maniera disorganica, ognuna a presentare il suo vitigno e il suo territorio a dei consumatori che a fatica capiscono dove si trova la Romagna o il Veneto». Su quel mercato i francesi si muovono uniti e «avere un marchio che richiami l’Italia come sorta di “ombrello” specie in manifestazioni fieristiche di paesi extraeuropei, dove spesso le nostre aziende agroalimentari investono non poche risorse per avere un proprio stand, può sicuramente aiutare a rafforzare la percezione e la visibilità del brand “Made in Italy».
Si vedrà. Quel che è certo la protezione del made in Italy è tornata al centro del dibattito politico. Durante Tutto Food che si è concluso nei giorni scorsi a Milano i presidente di Coldiretti (Ettore Prandini) e di Filiera Italia (Luigi Scordam aglia) hanno incontrato il premier, Giuseppe Conte, e lo hanno sollecitato a procedere con l’emanazione dei decreti applicativi della legga sull’indicazione obbligatoria dell’origine dei prodotti per i settori ancora non coperti: salumi e marmellate, succhi, legumi in scatola «per dare la possibilità ai consumatori di scegliere consapevolmente». La risposta di Conte è stata affermativa. Poi ribadendo la necessità di assicurare la trasparenza ha spiegato: «Dobbiamo scongiurare ossessioni ed eccessi assolutamente soverchi: mettere un codice rosso sul nostro olio d’oliva… il codice rosso lasciamolo ai semafori, ai sistemi che gestiscono il traffico».