Il Sole 24 Ore, 12 maggio 2019
Pirella secondo Lingiardi
Pensare ad Agostino Pirella mi muove ricordi lontani che prendono però forma quotidiana in un’eredità assimilata nella pratica clinica: l’ascolto della soggettività del paziente e il riconoscimento della sua storia come ingredienti principali della psichiatria e della psicoterapia. Alzo gli occhi verso gli scaffali più alti della mia libreria e riconosco i dorsi di alcuni volumi che, diciottenne, mi indirizzarono verso la mia professione. Era il 1978, anno cruciale della riforma psichiatrica, e per la prima volta, in un volume curato da Franco Basaglia, mi imbattevo nella scrittura nitida e colta di Pirella.
Dieci anni dopo, conclusa la specializzazione, mi affacciavo a una psichiatria che le idee e le azioni di questi uomini, e del movimento che attorno a loro si era raccolto, avevano liberato da retaggi autoritari e violenti. Tanto che oggi, nella locandina della prima «Lezione Pirella», possiamo leggere queste sue parole: «questo era il reparto agitati del manicomio di Arezzo. Adesso è pieno di giovani studenti. Nessuno poteva immaginare all’epoca che un posto di dolore e di violenza un giorno sarebbe diventato un luogo di cultura e di pace. Noi ci abbiamo creduto e ci siamo riusciti».
Quando scrive, Pirella sembra avere sempre in mente due domande: «cosa è la psichiatria?» e «cosa è la malattia mentale?». Per rileggere la sua opera è utile ricordarne le letture: Husserl, Minkowski, Binswanger, Sullivan, Ferenczi – di quest’ultimo l’appello a «fare più attenzione alla particolare maniera di pensare e di parlare dei bambini, degli allievi e dei pazienti; tutti costoro parlano un linguaggio nascosto e tuttavia fortemente critico, per cui, se scioglierete loro per così dire la lingua, avrete modo di ascoltare alcune cose istruttive». La sua radice fenomenologico-esistenziale, nutrita di temi psicodinamici e interpersonali, ha dato vita a un pensiero critico che, valorizzando la «rottura epistemologica» operata dalla psicoanalisi, ci mette in guardia, con notevole tempismo, da ogni «psicoanalismo» normativo.
La mia formazione è avvenuta a valle di queste conquiste. Ma si è concentrata attorno a un tema controverso e poco amato dal movimento anti-manicomiale: la diagnosi (psichiatrica e psicoanalitica). Per certi aspetti il mio interesse per la nosografia psichiatrica è in contrasto con l’esperienza di chi mi ha preceduto. Sui miei studi, per esempio, è più volte atterrata l’astronave del DSM, il manuale diagnostico dell’American Psychiatric Association (e ciò che dico ai miei studenti è: «chi conosce solo il DSM non è un buon clinico, ma nemmeno lo è chi non lo conosce affatto»).
Schematicamente si potrebbe dire che la cosiddetta «antipsichiatria» voleva scardinare l’approccio diagnostico mentre buona parte della mia generazione (costretta tra la Scilla di una diagnostica burocratica e disumanizzata e la Cariddi di un antidiagnosticismo radicale) si è spesa per ricostruirlo al meglio.
Lavorando con Nancy McWilliams alla nuova edizione del Manuale Diagnostico Psicodinamico (PDM-2) ho cercato di non naufragare su quegli scogli. Provando a fare un manuale che non è una «tassonomia di disturbi» ma una «tassonomia di individui che presentano un disturbo». E descrivendo la personalità come qualcosa che una persona è più che qualcosa che una persona ha. La diagnosi è anzitutto conoscenza della storia e della cultura del paziente, del suo temperamento, dei suoi meccanismi di difesa, dei suoi tratti di personalità. Ma anche delle sue capacità cognitive e dei suoi stili di attaccamento. E delle sue risorse! Come occuparsi della cura senza diagnosticare anche i punti di forza dell’individuo?
Una buona diagnosi è sempre figlia di un tormento clinico: scegliere una soluzione capace di ricondurre il paziente a una categoria più generale senza tradire la sua unicità. Per molti clinici «diagnosi» è ancora sinonimo di semplificazione normativa e oggettivazione autoritaria. Sono ancora attuali queste posizioni? La psichiatria ha conosciuto diagnosi piene di pregiudizi e vuote di evidenze scientifiche (come quella di omosessualità, ci ricorda Pirella) e le ha persino usate per «sorvegliare e punire», internando avversari politici e cittadini scomodi.
Ma oggi le diagnosi servono a promuovere psico- e/o farmaco-terapie in grado di migliorare la vita di molti. Non solo: siamo abituati a pensare la diagnosi come un processo conoscitivo compiuto da chi la formula. Ma la diagnosi è anche un momento decisivo della conoscenza di sé. Perché, ed ecco un’altra eredità di Pirella, la diagnosi non è la scorciatoia di una definizione ma il traguardo di un racconto.