La Lettura, 12 maggio 2019
Biografia di Pierre Pachet
Sulla copertina di un suo libro del 1999, il volto di Pierre Pachet campeggia energico, squadrato, anche un po’ cupo, pervaso da una nobiltà austera. Non è il viso acuto, vivace, sarcastico e inquieto al tempo stesso del Pachet che avrei conosciuto qualche anno più tardi, e al quale mi legò fino alla fine un’amicizia ineluttabile come un colpo di fulmine.
Quello che ho conosciuto io era il Pachet vedovo. Non ho fatto in tempo a incontrare sua moglie Soizic, di cui ha raccontato l’agonia in un libro lacerante, Adieu, e dunque non ho conosciuto l’intellettuale austero che sosteneva di essere stato finché c’era lei, saldamente ancorato agli studi e alla vita di coppia, a quella famiglia che gli faceva da baluardo.
Quello che ho conosciuto io era un uomo che aveva levato gli ormeggi. Scriveva ancora, libri sempre più liberi, sempre più intimi, sempre più difficili da classificare.
A partire da Autobiografia di mio padre, ho sentito il fascino di quei libri, di quella voce sorda e ostinata, di quella maniera di osservare senza battere ciglio – un po’ come Henri Michaux – qualsiasi cosa vada a comporre un’esperienza umana: un braccio rotto, l’avanzare degli anni, la perdita del linguaggio da parte della madre affetta dall’Alzheimer, le persone che parlano da sole in mezzo alla strada, le donne che non vengono più toccate da nessun altra pelle che non sia la loro… Tutti esempi, questi, tratti dai vari libri di Pachet, a ognuno dei quali ben si adatterebbe il titolo di uno di loro: Aux aguets (che in italiano potremmo tradurre «In allerta», ndr). Perché sono tutti, a loro modo, esercizi di irrequietudine e vigilanza.
Quello che più mi commuove è L’amour dans le temps, dedicato alla vedovanza.
La morte di Soizic l’aveva devastato, ma devastato del senso della formula sublime di Ferdinand Céline: «È forse questo che si cerca nella vita, nient’altro: la più grande pena possibile per diventare sé stessi prima di morire».
È dunque diventato sé stesso? È forse diventato un altro? Di sé scrisse: «Di Pierre Pachet curo la successione, sbrigo i suoi affari, ma Pierre Pachet non lo sono più».
Eppure varie pagine dopo, nello stesso libro, aggiungeva: «L’energia erotica che mi anima non fa che portare avanti ciò che il dolore ha messo in moto. Il dolore non si è spento, mi cova dentro, brucia, ma per una strana mutazione che mi piacerebbe poter osservare e comprendere, sta alimentando un’impetuosa voglia di vivere, di piacere, di offrirmi…».
Vivere, piacere, offrirsi, essere degno della vita, quella vita in cui Soizic l’aveva lasciato solo. Il Pachet che ho conosciuto io era un artista del mondo fluttuante, disperato e al tempo stesso prodigiosamente vivo, curioso di cosa lo aspettasse dietro l’angolo, aperto a tutto, disponibile per chiunque e specialmente per le giovani donne di cui noi, la cerchia ristretta degli amici, esterrefatti dalla rapidità con cui si succedevano e non senza una punta di gelosia, scoprivamo i nomi, i volti, le storie, le pene d’amore (che lui sapeva ascoltare come nessun altro).
Pachet preferiva le donne, gli uomini un po’ lo annoiavano: me ne accorgevo, malgrado l’affetto che mi portava, quando ci vedevamo io e lui da soli, o addirittura quando festeggiavamo, assieme, i nostri compleanni – poiché siamo nati lo stesso giorno a vent’anni di distanza, e a lui piaceva pensare alle differenze di età, non solo tra di noi, come a «un parapetto su cui appoggiare i gomiti per chiacchierare più comodamente».
Pachet riceveva gli amici nel suo appartamento di rue Chapon, a Parigi. A più di settant’anni organizzava feste sommamente improvvisate, alla russa, cui partecipavano persone di ogni età e degli ambienti più disparati, e soprattutto sempre nuove. Ne incontrava di continuo, si interessava a ciò che rendeva ciascuno singolare, stuzzicava i suoi interlocutori con il suo inimitabile fare sornione.
La sera della sua morte, come veglia funebre gli abbiamo organizzato in casa una festa delle sue, c’era da fumare, c’erano vodka e musica, perché a lui piaceva ballare, e soprattutto gli piaceva che gli altri ballassero, e meglio ancora se si baciavano.
Tutto ciò gli premeva viverlo, infinitamente più che scriverne.
Autore di una ventina di libri, quest’uomo che era stato un brillante accademico, un fascinatore di studenti e ancora più di studentesse, un critico della levatura di un Jean Starobinski, e che negli ultimi anni aveva preferito la scrittura intima alla prosa di idee, non si considerava un uomo di lettere ma una sorta di provvisorio stagista della vita. Stagista ma anche saggista, perlomeno nella definizione che l’austriaco Robert Musil dava della «saggistica»: non un genere letterario, ma un modo di stare al mondo, una morale di completa fedeltà all’esperienza.
Pachet – che ho sempre chiamato con il cognome, mai Pierre, e a lui piaceva, la cosa lo divertiva – è per me qualcosa di diverso rispetto a uno scrittore che ammiro.
Per tutti i quindici anni della nostra amicizia, e so che questo vale anche per molti altri, è stato, per la sua lucidità, il suo fascino scontroso, il volto sensuale e segnato che mi ricordava tanto Ben Gazzara, uno dei miei eroi nella vita reale.