La Lettura, 12 maggio 2019
Le incognite dell’attentato di via Rasella
Maurizio Giglio era nato a Parigi nel 1920 da famiglia italiana. Diplomato al liceo Mamiani di Roma e laureato in giurisprudenza, seguì un corso per allievi ufficiali e nel 1940 fu mandato al fronte francese, poi a quello greco-albanese. Ferito, rientrò a Roma e l’8 settembre 1943 partecipò alla battaglia di Porta San Paolo contro i nazisti, al termine della quale si rifugiò a Napoli non appena cadde in mano agli Alleati, con cui prese subito contatto: lo inserirono nell’Office of Strategic Service (precursore della Cia), dandogli il nome in codice di «Cervo». Rientrato a Roma con grandi difficoltà il 28 ottobre, con l’aiuto del padre, che lavorava al ministero dell’Interno, si arruolò nella polizia come tenente ausiliario. Aveva portato con sé una radiotrasmittente di fabbricazione americana e ricevuto l’incarico di stabilire una rete d’informazione tra la Resistenza e gli Alleati. Il 17 marzo 1944, dopo quattro mesi e mezzo di attività utilissima svolta con l’agente americano Peter Tompkins, fu catturato dai fascisti della banda Koch e brutalmente torturato per una settimana, senza dire una parola sulla sua rete di contatti. In seguito all’attentato di via Rasella, avvenuto il 23 marzo, fu ucciso alle Fosse Ardeatine.
Sua sorella Giulia Adriani racconta che negli anni Cinquanta ricevette la visita di alcuni esponenti del Pci, i quali le chiesero se era disposta a dichiarare pubblicamente che Maurizio Giglio era un simpatizzante di quel partito: rispose di no, che le dispiaceva, ma suo fratello era un liberale moderato mantenutosi fedele fino all’ultimo al giuramento fatto al re.
Adriana Montezemolo, figlia di Giuseppe, il capo di tutta la Resistenza militare e la vittima più illustre della rappresaglia nazista, ha dichiarato tempo fa di non aver mai sentito nominare pubblicamente suo padre come figura fondamentale della Resistenza fino all’aprile del 1965: nel caso di Giglio, ignoto ai più benché anch’egli insignito di medaglia d’oro alla memoria, l’attesa si protrasse per altri trent’anni, quando una lapide fu inaugurata sul muro del palazzo romano dove abitava e dove la famiglia continua ad abitare. Armando Giglio, padre di Maurizio, nei primissimi anni del dopoguerra presiedette l’Associazione delle famiglie dei martiri, ma fu sostituito senza apparenti motivazioni da esponenti di maggiore rilievo e affidabilità politica.
Il dottor Attilio Ascarelli era un medico legale che nel luglio 1944 fu incaricato di esaminare i resti delle 335 vittime della rappresaglia, cinque delle quali restano tuttora non identificate. Svolse una perizia scrupolosa, al punto che una lapide lo ricorda nel mausoleo costruito sul luogo dell’eccidio: non si limitò a descrivere lo stato dei resti, ma ricostruì con cura le biografie essenziali dei caduti, compresa la loro affiliazione politica. Quest’ultima però appare soltanto nel volume pubblicato pochi anni fa dagli allievi di Ascarelli in occasione del cinquantennale della sua morte, mentre Alessandro Portelli non ne fa alcuna menzione nel suo pur pregevole saggio L’ordine è stato eseguito. Da queste schede si desume che delle 330 vittime identificate, i gruppi più numerosi erano i cittadini di religione ebraica (circa 75), quasi tutti razziati poco prima della rappresaglia e uccisi come tali, e gli appartenenti al Movimento comunista d’Italia (rivale del Pci), più noto come Bandiera rossa (68). Seguivano il Partito d’Azione con 52 vittime e gli appartenenti alle Forze Armate, soprattutto esercito e carabinieri, con un numero quasi uguale; infine, gli appartenenti al Pci (tra i 25 e i 30) e al Partito socialista, una ventina. Le rimanenti trenta salme circa erano di esponenti di partiti minori, o di persone senza affiliazione.
È opportuno precisare che, mentre le vittime di religione ebraica – come anche gli appartenenti ai partiti comunista e socialista – erano tutte di modesta estrazione sociale e/o di poco peso politico, i caduti degli altri gruppi – ossia Bandiera rossa, azionisti e militari, circa 170 in tutto – erano un’élite importante, sia dal punto di vista dell’estrazione sociale che da quello del ruolo svolto nella Resistenza; non solo, ma pur intrattenendo rapporti di solidarietà e collaborazione, rivendicavano a ogni possibile occasione la propria autonomia e indipendenza, nei confronti sia delle grandi potenze sia delle forze politiche di massa ricostituitesi a partire dal 25 luglio 1943.
L’attentato di via Rasella e la rappresaglia che ne seguì hanno compiuto 75 anni e sono diventati uno degli emblemi più evidenti della discordia che c’è nel Paese in materia di memoria storica. Nonostante vari processi sempre arrivati all’ultimo grado di giudizio, una memorialistica abbondante, l’esistenza di un museo – quello fondato oltre sessant’anni fa a via Tasso, dove si trovavano i quartier generale e la prigione delle SS – il cui obiettivo istituzionale è trasmettere la conoscenza dei fatti storici e vincolare il più possibile la popolazione, in particolare i giovani, ai valori fondanti della Repubblica italiana, il peso di gravi omissioni, reticenze, errori compiuti sia in ambito politico che storiografico è ancora plumbeo e ciò facilita non solo il diffondersi dell’ignoranza, ma anche i proclami fascisti che avrebbero dovuto essere sepolti tre quarti di secolo fa.
Il giornalista Pierangelo Maurizio, che da oltre vent’anni cerca con paziente opera di «cronista», come ama definirsi, di alleggerire il peso di cui sopra, ha dovuto pubblicare tutti i suoi libri (molto spesso citati) in proprio, come i dissidenti dell’Est sotto il comunismo, per il rifiuto opposto da numerose case editrici. Alcuni lo hanno accusato di «fascismo», ma ha continuato ad andare avanti. Gabriele Ranzato, nel volume La Liberazione di Roma (Laterza), lo definisce «confuso», ma ricava molti dati dai suoi studi e non giunge a conclusioni definitive su via Rasella.
La verità è che l’attentato e la rappresaglia aspettano ancora di essere ricostruiti in modo convincente. Le 33 vittime erano dei coscritti di etnia tedesca trentini, altoatesini e bellunesi, quasi tutti cattolici, ma la bomba uccise anche un ragazzino innocente, Piero Zuccheretti, e un partigiano di Bandiera rossa, Tommaso Chiaretti, la cui presenza sul luogo rimane senza spiegazione. L’azione fu decisa in ambito comunista senza consultare gli altri partiti del Cln. La rappresaglia era prevedibilissima e decapitò la componente della resistenza filo-monarchica, e della sinistra non comunista o non affiliata al Cln. Adriana Montezemolo racconta che una sola volta incontrò Carla Capponi, la partigiana medaglia d’oro corresponsabile dell’attentato, che le venne incontro sorridendo e la salutò con calore: fu ricambiata con cortese freddezza e non si rividero mai più.