Il Sole 24 Ore, 12 maggio 2019
Biografia di Giuseppe Baretti
«D’ alta statura, vivace, allegro, frequentatore delle festevoli brigate, altiero, millantatore, impetuoso, collerico, vendicativo, di un coraggio pronto e risoluto, onest’uomo fino alla fierezza, di severi costumi, lavoratore indefesso, costante nelle amicizie, compassionevole, benefico al di là de’ suoi mezzi e religioso senza superstizione»: così Giuseppe Baretti nel ritratto di Pietro Custodi. Uomo del Settecento più dinamico e aperto alla modernità, Baretti (Torino 1719-Londra 1789) viaggiò e visse in diverse città. A Milano frequentò tra gli altri il poeta Passeroni e Giuseppe M. Imbonati. A Venezia fu amico dei fratelli Gozzi e ne apprezzò le opere; mentre non avrebbe stimato Goldoni per un certo tratto plebeo. Tale giudizio negativo gli è valso l’epiteto di “conservatore”, con un ideologismo, più adatto al giudizio politico che letterario, che sorvola sull’urgenza di ogni autore di affermare prima di tutto una sua poetica e precisa visione della letteratura entro un’interpretazione delle tradizioni prese a riferimento: nella cultura i valori si negoziano, infatti, perché la storia letteraria non risponde a necessità di sviluppo progressivo! Dal 1751, pur con alcuni intermezzi, Baretti visse in Inghilterra, dove strinse amicizie importanti: ad es. con Samuel Johnson e Sir Joshua Reynolds, che lo ritrasse in un famoso dipinto. Proprio i solidi rapporti intessuti con tante personalità di quel paese lo salvarono dalla condanna a morte, quando fu implicato in un fatto di sangue: a Londra aveva accoltellato e ucciso un uomo in una rissa. Baretti viaggiò pure in Francia, Portogallo e Spagna, lasciandone vividi resoconti nelle Lettere familiari ai suoi tre fratelli (1760-61, edizione incompleta; e 1770, con rifacimento e riscrittura in inglese: A Journey from London to Genoa through England, Portugal, Spain and France).
Il fascino del personaggio ha offuscato a volte la sostanza dell’intellettuale Baretti, che fu poeta, traduttore, prosatore, critico, giornalista, autore di teatro, lessicografo e docente di italiano: primo intellettuale europeo di lingua italiana, padrone di più idiomi, convinto che parlare e scrivere in inglese, francese, o spagnolo (come fece) ampli gli orizzonti di ragionamento, dunque dell’espressione e della conoscenza. Baretti non amava, però, il pastiche linguistico, perché ogni lingua ha la stessa dignità culturale; e fu pronto a difendere con forza la specificità e il prestigio della cultura italiana, in una Europa dove gli illuministi francesi andavano imponendo una nuova egemonia. Nel ruolo di mediatore della cultura italiana in Inghilterra fu secondo solo a John Florio, ad es. con le opere Remarks on the Italian Language and Writers (1753), Introduction to the Italian Language (1755), Dictionary of the English and Italian Languages, con le grammatiche di entrambe le lingue (1760), Easy Phraseology for the Young Ladies Who Intend to Learn the Colloquial Part of the Italian Language (1775), senza dimenticare An Account of the Manners and Customs of Italy (1768).
Pur stimato dai posteri per lo stile di straordinaria energia, la prosa ricca di estri formali, di invenzioni lessicali, ha goduto di consensi parziali, ed è stato definito anche “dilettante”, “umorale” “qualunquista” ecc. Eppure Baretti è stato il padre della critica letteraria italiana, in specie quella militante, che animò il suo quindicinale «La Frusta Letteraria»(1763-1765), finché non glielo fecero chiudere nemici potenti urtati dalla sua verve polemica. Aveva avuto l’idea, modernissima, di creare un genere misto, saldando giornalismo, critica letteraria e fiction, inventando il personaggio-maschera Aristarco Scannabue – ossia il fustigatore degli ignoranti e dei pessimi scrittori – in un contesto narrativo e di personaggi da inserire nel genere umoristico e (anti)romanzesco. È il primo a comprendere che lo sguardo di un critico, come di ogni altro intellettuale, è tanto più prezioso quanto più è soggettivo ed eticamente centrato sui principi della responsabilità e della verità. Il consiglio formale dato a una autorità come Antonio Genovesi – «lascia scorrere velocemente la penna; lascia che al nominativo vada dietro il suo bel verbo, e dietro al verbo l’accusativo senza altri rabeschi» – fu il suo stesso programma. Per lo stile piacque non a caso all’innovatore Collodi, le cui stroncature più celebri molto devono al fresco Baretti umorista di vaglia. Per non dire poi di autori del Novecento come Boine e Papini o Gobetti, che fondò la rivista «Il Baretti» nel 1924.
È vero che il suo caratteristico «giudicare d’ogni cosa col proprio giudizio» lo sbilancia su autori e opere oggi valori certi, come nel caso di Goldoni; ma è anche un pioniere: nell’affermare la grandezza di Michelangelo poeta, e di Dante in polemica con Voltaire e il suo secolo, in cui l’altezza della poesia del fiorentino era contestata.
In un recente convegno che ha riunito, a Palazzo Mediceo di Seravezza, i maggiori studiosi dell’autore (da Francesca Savoia a Bartolo Anglani, da Elvio Guagnini a William Spaggiari) – solo il primo della serie prevista dal programma approvato dal MiBac e organizzato dal Comitato nazionale per le celebrazioni dei trecento anni della nascita di Giuseppe Baretti – si è visto l’emergere di altre fonti storiche, è stata ribadita l’unitarietà dell’esperienza intellettuale di Baretti capace di fare della critica militante opera più ampia di critica della cultura; e quelli, a volte considerati da certa critica “umori personali” sono stati stemperati e chiariti entro una visione culturale stratificata e variamente contestualizzata, ma non priva di coerenza operativa. In una realtà che, peraltro, nei suoi viaggi Baretti seppe letteralmente “inventare”: appunto con una idea nuova di sguardo sulle cose, di reale/cronaca, espressi nel reportage narrativo delle belle Lettere familiari.
Era, è l’ora, che Baretti venga restituito senza “sì, però...” alla nostra letteratura.