Il Sole 24 Ore, 12 maggio 2019
La gran moda del miele
C’era una volta il vino senza terroir e senza cru. C’era una volta il caffè senza cultivar e non monorigine. C’era una volta il pane senza grani antichi, senza indice glicemico ridotto. E poi c’è il miele, che per molti oggi è ancora troppo spesso solo... miele. Nasce da questa consapevolezza il lavoro paziente, quasi eroico, di piccoli apicoltori italiani che ricercano nel proprio miele una qualità gourmet capace di valorizzare la biodiversità. Perché se è vero che, come scrisse Emily Dickinson, «il pedigree del miele non è una preoccupazione dell’ape; un trifoglio, in qualsiasi momento, per lei è l’aristocrazia», è altrettanto evidente che mettere le api nelle condizioni migliori consente di raggiungere una qualità eccellente. E quell’eccellenza, lentamente, inizia a essere percepita dal mercato.
Non c’è dunque il miele generico, ma ci sono i mieli prodotti nelle arnie immerse nei boschi che avvolgono il millenario Castello di Petroia nell’area di Perugia o protette tra boschi e prati della tenuta Borgoluce sulle colline intorno al castello di Collalto, nel Trevigiano. Ancora ci sono le selezioni del primo Apiario di Comunità italiano a Castel del Giudice, borgo dell’alto Molise al confine con l’Abruzzo che si è dotato di una politica alimentare sostenibile, di cui gli insetti sono protagonisti. E l’apicoltura diventa esperienziale con percorsi dedicati, come il Sentiero delle Api in Alto Adige, che da Rodengo si snoda per sette km tra masi e boschi, o il Parco delle api e del miele a sud di Bologna, che vede impegnato il consorzio Conapi.
L’orgoglio dell’apicoltore
Tra i pionieri del miele gourmet c’è Andrea Paternoster, che con i suoi Mieli Thun ha cercato di cambiare i paradigmi. «Tra i miei vicini e amici ci sono grandi vignaioli trentini e io li vedo orgogliosi di fare il proprio vino – rimarca l’apicoltore -. La mia famiglia ha sempre fatto miele, ma il soggetto centrale era l’ape e per il prodotto non serviva etichetta. Io ho voluto creare un marchio che coincidesse con una qualità integrale. Abbiamo fatto diventare adulto il miele, al di là delle idee bucoliche». Paternoster andava per fiere provocando: «Il miele è un vizio e non una cura per il mal di gola. È gioia perché è la cosa più bella che fa la natura. Nessun vino ha un simile valore intrinseco e indipendente dal lavoro dell’uomo». E a fronte di 5.600 specie vegetali in Italia (il 50% della flora europea), «passione e sacrifici di piccoli apicoltori hanno portato cose straordinarie come i mieli monoflora. E io vedo molto fermento, anche culturale, soprattutto tra i giovani». La spinta che Paternoster ha impresso al brand è legata soprattutto al miele pensato come materia prima gourmet. «Non ho inventato nulla, dato che il miele è in cucina fin dai tempi dei Romani – spiega -. Ho agitato le acque facendo formazione nelle scuole gastronomiche e incontrando gli chef. Con un’azienda agricola di 10 persone in un paese di 800 anime, abbiamo raggiunto traguardi importanti». E ricorda fra tutti lo sbarco in Costa Brava, alla corte di Ferran Adrià: «vent’anni fa il secondo di Ferran, Eduard Xatruch, volò in Italia per vedere come lavoravo. Quattro mesi dopo, due piatti tra le portate servite a elBulli, il tempio della gastronomia mondiale, erano con mieli Thun».
La filosofia nomade
Se Mieli Thun muove gli alveari in tutta Italia, un modello più local di apicoltura nomade è quello di Volàvia nel cuneese. Alberto e Caterina, che portano avanti con passione un progetto legato al territorio, hanno un debole per le fioriture di montagna. «Siamo partiti nel 2016 nei boschi della valle Po – raccontano -. L’apicoltura è stata improntata fin da subito al biologico e da nomadi ci spostiamo alla ricerca di postazioni incontaminate. Scegliamo la montagna per la quasi totalità dei nostri mieli, con un areale che spazia dai 400 ai 1.950 metri di quota. Anche per questo la nostra produzione è incerta, basta un cambiamento improvviso per compromettere una fioritura». I mieli Volàvia sono dunque una nicchia preziosa. La filosofia degli apicoltori piemontesi è la ricerca dell’equilibrio nell’alveare: «Un lavoro che dura 12 mesi per tenere in salute e pulita la casa delle api, utilizzando solo la loro cera e il loro miele – spiegano -. Inoltre osserviamo gli alveari tutta la stagione, valutando la covata, la produttività e il carattere delle api, per poter scegliere le famiglie da cui ottenere le nuove regine». Allora Alberto agisce, senza guanti e senza alcuna protezione, prelevando le larve prescelte per metterle in incubatrice. Un intervento di precisione che porta l’apicoltore a un dialogo silenzioso e intimo con gli insetti, una relazione che coltiva da anni e che oggi è resa più “serena” dalla pratica dello yoga.
Edizioni numerate
Tra i primi in Italia a praticare il nomadismo, l’abruzzese Adi Apicoltura ha lanciato la collezione Le Esperienze, miele di alta qualità lavorato a freddo che ha grande rispondenza alle botaniche di riferimento: Tarassaco, Rododendro, Coriandolo e Corbezzolo. Le quattro varietà sono prodotte in edizione (e quantità) limitata con vasetti numerati. «Facciamo apicoltura da 150 anni e il mercato sta premiando le scelte pionieristiche – sottolineano dalla provincia di Chieti -, dalla produzione biologica attraverso il nomadismo al sostegno della biodiversità, fino alla creazione di una collezione di mieli da degustazione».
Nonostante il lavoro accurato degli apicoltori «il miele gourmet non esiste», sentenzia Giacomo Volpi che nel cuore del Mugello cura la produzione dell’Antico Miele della Signoria. «Il consumatore oggi non lo vede come tale, ma si affida al prezzo – spiega -. Noi produciamo in un’oasi felice, lontana da colture intensive, e facciamo analizzare costantemente pollini e miele, eppure il mercato non premia ancora la qualità. Chi ama il miele però riconosce quello buono e non pieno di zucchero. Dal mondo del vino dovremmo prendere le denominazioni per area: il miele di Zafferana Etnea è straordinario, ma non viene paragonato al pistacchio di Bronte. E poi il rapporto con l’horeca è marginale, ma sono certo che se lo scegliesse Cracco il mio miele avrebbe un’esplosione di vendite».
Adotta un’arnia
La piccola produzione (1 tonnellata l’anno) permette di dedicare grande attenzione ad ogni arnia, anche se l’impatto dei cambiamenti climatici (sulle fioriture e sul letargo) e della chimica mettono in pericolo le api e riducono la produzione. «Questo rende ancora più faticoso proteggere l’animale e curare una produzione di qualità», conclude Volpi. E per questo la piccola azienda toscana lancia il progetto “Adotta un’arnia”, che invita a una donazione con cui si coprono le spese di un’arnia per un anno contribuendo alla salvaguardia dell’insetto (e ricevendo il miele prodotto dalla propria arnia).