Il Sole 24 Ore, 12 maggio 2019
Vent’anni di Borsa. È cambiato poco o niente
Michail Gorba?ëv chiudeva la saracinesca del Soviet Supremo, Emmanuel Macron frequentava le lezioni dell’attuale moglie Brigitte e Donald Trump faceva ancora la comparsa in “Mamma, ho riperso l’aereo”. Sono passati 30 anni. È cambiato il mondo e, con questo, la finanza italiana ma secondo una logica tutta sua, quasi gattopardesca: tutto cambia perché nulla cambi.
Agli inizi degli anni ’90 c’erano tre grandi banche di interesse nazionale di proprietà dell’Iri, Comit, Credito Italiano e Banco di Roma e ora ci sono Intesa Sanpaolo e UniCredit. C’era l’acciaio di stato, ovvero l’Ilva, oggi c’è ArcelorMittal. C’era il gruppo Ferruzzi-Montedison poi sparito. C’era la Fiat degli Agnelli, diventata nel frattempo una Fca globale con testa ad Amsterdam e cuore a Detroit. C’era la Benetton dei maglioncini colorati e ora c’è la Benetton di autostrade e aeroporti.
Eppure è rimasto molto dell’elenco dei primi gruppi dell’industria e della finanza degli anni ’90 nel listino principale di oggi (Ftse Mib). Magari non si chiamano più Sip o Comit, ma le prime venti posizioni del listino azionario del 2018 sono in gran parte eredità di fine secolo. Che, salvo rare eccezioni, non sono state capaci di reinventarsi e di generare valore. Insomma l’Italia Spa del 2018, pur con tutte le sue trasformazioni fatte di fusioni, acquisizioni e vendite, non è altro che un’immagine sbiadita di quella degli anni di Tangentopoli.
È quanto emerge da un’inchiesta de Il Sole 24 Ore, attraverso un’elaborazione su dati Ubs, che ha messo a confronto i primi 20 gruppi per capitalizzazione dal 1992 a oggi. I numeri a disposizione mostrano alcune evidenze: innanzitutto, dopo un exploit iniziale, è forte la sensazione di un’immobilità generale, basti pensare che nel ’98 la ventesima azienda per capitalizzazione valeva 6,1 miliardi e altrettanto succede oggi; poi la perdita di grandi realtà industriali, ma anche i limiti del processo di consolidamento che, soprattutto in ambito finanziario, ha creato campioni locali poco attivi sulla scena globale; infine la presenza di assetti azionari a trazione pubblica o spesso legati al modello del capitalismo famigliare che non sono riusciti a rigenerarsi compromettendo il salto dimensionale. Con il paradosso che schemi proprietari simbolo degli anni ‘90, come lo Stato padrone, rischiano ora di tornare di stretta attualità, come mostra l’ingresso di Cdp in Telecom o la crisi bancaria con il conseguente salvataggio pubblico di Mps prima e Carige probabilmente poi.
Un quadro che sconta anche l’incapacità di cogliere due grandi opportunità che si sono presentate nel corso degli anni. Da un lato l’occasione di puntare, per fare da volano al fatturato, ai paesi emergenti e dall’altra quella di sottovalutare, al pari dell’Europa in generale, le potenzialità del mondo “internet”, sebbene difficile da cavalcare stante il quasi monopolio della Silicon Valley. Per capire fino a che punto il paese è rimasto ai margini di questo processo basta guardare l’evoluzione della lista Fortune 500: oggi nelle prime posizioni compaiono colossi come Apple e Amazon, figli dell’evoluzione tecnologica e in grado di scalzare i simboli dell’industria a stelle e strisce come General Motors e Ford. Da noi l’unica realtà sopravvissuta all’euforia del Nuovo mercato è Fastweb, da tempo ormai volata in Svizzera e Yoox, rilevata da Richemont.
Vent’anni e stessi valori
Punto di partenza per capire l’inerzia del sistema industriale e finanziario italiano è visualizzare come si sono alternati i big del paese nel corso di questi 27 anni. L’analisi, sempre su elaborazione di dati Ubs, fotografa quattro momenti chiave: il 1992, il 1998, il 2008 e il 2018. Se si mettono a confronto i valori di Borsa dei primi 20 gruppi del paese, il salto vero lo si registra tra il 1992 e il 1998, in concomitanza con la transizione dei valori di Borsa dalla lira all’euro. A partire da qui, però, dunque negli ultimi 20 anni, i numeri sembrano congelati: la top 20 valeva 346 miliardi a fine anni ’90 e alla fine del 2018 343 miliardi. Nel mezzo, il pesante calo del 2008 complice il caso Lehman Brothers, con le prime venti aziende che avevano perso in tutto oltre 60 miliardi e la loro capitalizzazione complessiva era scesa a 285 miliardi.
I protagonisti del ’92 vedevano pubblico e privato convivere e spartirsi le prime posizioni in vetta con Generali sul podio, sulla scorta degli 11 miliardi di controvalore, seguita da Sip e Fiat che capitalizzavano però meno della metà di Trieste. Lo scenario si ribalta nel ’98: a valle delle prime privatizzazioni le pubbliche Tim, Telecom ed Eni vanno ad occupare i primi tre posti. Poi il consolidamento bancario mischia ancora leggermente le carte: nel 2008 la testa della classifica è guidata da Eni, seguita da Intesa Sanpaolo ed Enel che anche nel 2018, seppure con un ordine invertito comandano il Ftse Mib. In pratica in un arco temporale lungo dieci anni non è cambiato nulla con energia e assicurazioni che dominano il listino.
Numeri a confronto
In questo quadro se si entra ancora più nel dettaglio, la fotografia dei valori di Borsa è impietosa: Generali a fine 2018 capitalizzava 22 miliardi, nel 2008 valeva 27 miliardi e nel ’98 addirittura 56,5 miliardi (se si sommano anche le quotazioni di Alleanza e Ina). Unicredit e Intesa Sanpaolo, figlie entrambe di grandi aggregazioni, pagato lo scotto delle grandi crisi degli ultimi 20 anni, dall’11 settembre a Lehman Brothers, oggi hanno valori uguali o inferiori a quelli del ’98. Sul fronte pubblico Eni vale appena 4 miliardi in più di quanto quotava alla fine degli anni ’90. Certo, le eccezioni non mancano: la piccola Fiat che nel ’92 si attestava sui 4 miliardi oggi viaggia a ridosso dei 20 miliardi ed è il sesto gruppo del Ftse Mib; Luxottica che all’epoca non aveva dimensioni rilevanti ha creato un colosso da 50 miliardi di capitalizzazione tra Parigi e Agordo; i Benetton che partendo dai maglioncini colorati hanno costruito una multinazionale e i Rocca che con Tenaris continua ad essere tra le prime 15 società di Piazza Affari. La Mediaset di Berlusconi ha fatto l’ingresso tra i big solo a metà degli anni ’90 per poi uscire lo scorso dicembre dal listino principale.
Pochi campioni
Se il confronto si sposta al di fuori delle mura di casa, i numeri descrivono un Paese ricco di campioni nazionali che non sono stati in grado di raggiungere dimensioni tali da essere confrontabili con i competitor mondiali ed europei. Partendo dal basso, c’è chi fa notare che basta dare uno sguardo veloce al numero delle società con una capitalizzazione superiore ai 5 miliardi negli ultimi 20 anni e confrontarla con Usa e Cina. In Italia il numero è pressoché stabile, attorno a 20, mentre in Cina ora sono 150 rispetto alla ventina di gruppi che si contavano negli anni novanta e negli Usa sono cresciute del 30%. Se si restringe il campo all’Europa, le differenze restano. Intesa Sanpaolo e UniCredit, le prime due banche italiane, hanno una valorizzazione di Borsa non paragonabile all’inglese Hsbc, forte dei suoi 132 miliardi, o alla spagnola Santander (70 miliardi). In proposito, alcuni banchieri osservano che il motore del bilancio della banca spagnola oggi sono proprio le attività in America latina della vecchia Comit. Cedute dopo l’integrazione con Intesa per evitare che gravassero sui bilanci dell’aggregato in una fase in cui il Sud America era in profonda crisi ma oggi diventate tesoro tra le righe dei conti del Santander. Anche affiancando Eni con la francese Total i valori scontano differenze clamorose: il gruppo petrolifero italiano alla fine del 2018 capitalizzava quasi 50 miliardi (ne valeva 67 miliardi dieci anni prima) contro i 125 miliardi del gruppo transalpino. Enel, al contrario, ha scelto una strategia internazionale, puntando soprattutto sulla Spagna ed è stata capace di raddoppiare negli ultimi venti anni la capitalizzazione portandola dai 27 miliardi del ’98 ai 51 miliardi della fine dello scorso anno, più della francese Edf (36 miliardi), se si vuole limitare il confronto al paese transalpino al pari di Eni. Al di là dei singoli casi, più in generale, le performance degli indici di Borsa sono sintomatiche del terreno perso dall’Italia nel confronto con l’Europa. Da fine ’92 al ’98 Piazza Affari è cresciuta del 262% contro il balzo del 198% dell’Eurostoxx. Se si guarda invece l’andamento dagli inizi degli anni ’90 ad oggi, il nostro listino è salito di appena l’87% contro il +229% dell’Unione Europea. D’altra parte tra il 2008 e il 2018 si è persa un quarto della produzione industriale e il 10% del pil. Senza contare che quel poco che è stato fatto è merito principalmente del contributo della piccola e media impresa italiana.
La ricchezza delle medie imprese
Se l’analisi delle prime venti posizioni appare ricca di criticità, la media impresa funziona in Italia e continua a rappresentare la vera spina dorsale. Fiore all’occhiello di questa “taglia” di aziende è Moncler. La storica griffe di piume, nata nel 1952 in un paesino vicino a Grenoble e capitanata dallo stilista Remo Ruffini che l’ha acquisita nel 2003, è riuscita a costruire una storia di successo e di rinascita piazzandosi, nella classifica del 2018 del Ftse Mib, al 18° posto con 7,2 miliardi di capitalizzazione. Leonardo Del Vecchio, invece, se nel 2008 con la sua Luxottica viaggiava a metà classifica (5,7 miliardi di valore di Borsa) al momento del via libera dei soci all’aggregazione con Essilor, a marzo del 2017, il gruppo di Agordo segnava sul listino il traguardo di 24,8 miliardi. Ora insieme alla francese Essilor quota 48 miliardi di euro. Altri esempi virtuosi sono Davide Campari, società di Luca Garavoglia ormai proiettata sulla scena internazionale, o la piccola Amplifon che oggi vale 3,1 miliardi. New entry del Ftse Mib è il mondo del calcio con la Juventus che vale attorno a 1,2 miliardi.
L’evoluzione degli assetti
Se l’elenco dei protagonisti del listino a distanza di quasi 30 anni continua ad essere dominato dagli stessi attori, la composizione dell’assetto azionario è invece profondamente cambiata nel corso del tempo. La fine dei patti di sindacato, la presenza ormai marginale delle fondazioni nella compagine della grandi banche, il ridimensionamento di alcuni soggetti un tempo perno degli equilibri di Piazza Affari, offre un affresco che, se non fosse per la presenza ancora rilevante dello Stato in alcuni settori chiave, avrebbe poco a che fare con il passato. Gli istituti di credito sono forse l’esempio più evidente di questa trasformazione con gli enti, un tempo guida e nocciolo duro del libro soci, ridotti a comparse seppure in alcuni casi ancora determinanti nelle decisioni che contano. Intesa Sanpaolo ha visto il peso delle fondazioni scendere progressivamente dal 26% del 2008 al 17% del 2018. Ancora più chiaro il passaggio in UniCredit dove gli enti sono passati dall’avere il 13,1% della banca nel 2008 a detenere appena il 4% nel 2018. La fine dei patti di sindacato è invece scritta nella storia degli assetti proprietari di Mediobanca, negli anni crocevia delle più grandi partite finanziarie giocate in Italia grazie a un sistema fatto di partecipazione incrociate, scatole cinesi e accordi parasociali. La galassia del Nord, regno di Piazzetta Cuccia, non c’è più, la stessa banca si è impegnata nel mutare il proprio Dna tanto che ora l’unico salotto rimasto, ma in una versione light e destinato comunque a scomparire, è proprio quello che governa via Filodrammatici. Nel ’98 il patto blindava il 50% del capitale con Montedison primo azionista con il 19,8% e Unicredit all’8,5%. Oggi il sindacato di blocco è diventato un accordo di consultazione e raccoglie appena il 20,73% del capitale con Unicredit a guidare la lista dei soci forti con la stessa quota di vent’anni fa.
La rischiosa fragilità dei big
La composizione attuale del listino mostra tra l’altro, secondo attenti osservatori, l’incapacità dell’Italia di catturare i flussi di risparmio e di creare quegli ancoraggi di cui le public company hanno bisogno, con il risultato finale che molti dei player centrali della finanza italiana rischiano di vestire i panni della preda. Il tutto aggravato dalla presenza di una classe dirigente certamente meno forte rispetto al passato. Non stupisce così che ben tre delle prime sei aziende del Ftse Mib siano guidate da manager stranieri.
L’attuale fragilità del sistema Italia trova la massima espressione in Telecom, dove tra l’altro non compaiono fondi italiani nel capitale. La torta è divisa tra i francesi di Vivendi azionisti al 23,9%, il fondo attivista Elliot all’8,8% e la Cdp entrata recentemente nel capitale con il 4,3%, pacchetto destinato a salire al 5%. Si è arrivati fin qui dopo che negli ultimi 30 anni si è assistito a diversi ribaltoni che hanno visto per periodi più o meno lunghi passarsi il testimone rappresentanti dell’imprenditoria italiana (Roberto Colaninno, Marco Tronchetti Provera, i Benetton), delle banche e delle assicurazioni (Mediobanca, Generali e Intesa Sanpaolo) e gruppi stranieri (Telefonica e Vivendi). Il tutto a scapito dell’azienda che ha visto la capitalizzazione passare dai circa 100 miliardi del ’98 (valore che somma le allora quotate Telecom e Tim) e garantiva al gruppo le prime due posizioni nel ranking, ai 20 miliardi del 2008 fino ai 10 miliardi di fine 2018. Il tutto complicato da un debito netto che, seppure in miglioramento, sfiora i 25 miliardi (attese al 2019) e un business che sconta marginalità in calo.
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