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 2019  maggio 12 Domenica calendario

Intervista a Patricia Janet Scotland

«Nuotare insieme o affogare separati». Patricia Janet Scotland, Baronessa di Astha, pensa che i popoli della Terra non abbiano che due opzioni, fare squadra per superare le secche del cambiamento climatico, delle migrazioni, dell’instabilità economica e le guerre commerciali, oppure soccombere miseramente.
Lo dice con la forza che trova nell’essere rappresentante di un terzo del pianeta, dei 53 Stati indipendenti e dei 2,4 miliardi di anime che animano il Commonwealth di cui è segretario generale. «Siamo la prima generazione che soffre per il clima che cambia e l’ultima che può fare qualcosa – avverte -. E gli ultimi studi sostengono che ci restano dieci anni al massimo».

Viene da lontano, Patricia Scotland. È nata in Dominica, nei Caraibi, ma è vissuta a Londra da quando aveva due anni. Cattolica, decima di dodici figli, sognava un futuro nella danza moderna – «Adoro ballare»-, invece ha studiato legge, determinata. diventando la più giovane «Consigliera» della Regina, entrando alla Camera dei Lord e intraprendendo una carriera da Avvocato generale. Dal 2016 è segretario del club dei 53 presieduto dalla regina Elisabetta. «Non un caso – sorride -: se volete vederla sorridere, parlatele del Commonwealth».
La Baronessa ha modi informali, diversamente dall’abito viola su cui spicca una garbata collana di perle. È in Italia, a Milano, per promuovere Common Earth, la piattaforma dei 53 per fermare il riscaldamento globale. «Dobbiamo diffondere la consapevolezza dei pericoli ambientali e trovare i fondi per farlo – ammette -, serve una agenda unica per affrontare minacce interconnesse». Il Commonwealth, sottolinea, può essere l’esempio di ogni accordo futuro.
Se volete un’intesa, dovete prima convincere Trump.
«Trump non è l’arbitro finale di quello che succede. Noi siamo Paesi di sei diverse regioni, dall’Oceania al Nord America. Trentuno dei nostri aderenti sono piccoli stati che da tempo vivono il cambiamento climatico come sfida esistenziale. Non servono altre prove, le prove sono loro».
Non tutti sono d’accordo.
«Ci sono persone che non vogliono accettare l’evidenza. Il Commonwealth è stata la prima istituzione multilaterale a sollevare il caso del Clima alla Conferenza di Langkawi, in Malesia. I piccoli Stati hanno detto ai grandi “ecco cosa succede nel mio Paese, dovete aiutarci altrimenti noi, membri della vostra famiglia, moriremo”. Nel 1989 era già a chiaro che se non avessimo fatto qualcosa l’effetto sarebbe stato devastante».
Nel frattempo non è successo un gran che.
«Questo ci fa sentire ancora più responsabili, dobbiamo avere un ruolo pilota. Se saremo pragmatici e focalizzati, potremo identificare cosa funziona e cosa no. Se dimostreremo che nel nostro terzo di mondo, lavorando insieme, si può fare la differenza, gli altri faranno come noi».
Ci crede su serio?
«Si, assolutamente. Sta già accadendo. Abbiamo approvato all’unanimità la Commonwealth Charter. Le sue sedici clausole riflettono in modo quasi identico i sedici articoli degli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu. Vuol dire che il nostro lavoro e la nostra voce sono state ascoltate».
Il clima è una delle grandi paure, con le migrazioni e la crisi economica, che fomentano i populismi. Che fare?
«Tutto è interconnesso. Credo che il Commonwealth non sia mai stato così importante come ora che multilateralismo è sotto una estrema minaccia. C’è uno spirito nazionalista egoista e cattivo che si sta diffondendo. Come disse Nietzsche, perché il male si affermi basta che gli uomini e le donne di buona volontà rimangano in silenzio. Noi confidiamo nel multilateralismo, nella condivisione libera di dati e informazioni, crediamo che ci siano sfide concrete che non possono essere affrontate localmente e che richiedono risposte multilaterali. Come dicevo, possiamo nuotare uniti o affogare separati»
In Europa è una linea che fatica a sfondare.
«Dobbiamo dialogare meglio coi cittadini. Quando il pubblico capisce le opzioni, comprende che può fare la differenza con la scelta giusta».
Con Brexit è andata male.
«Il Regno Unito è gravemente diviso sulla questione europea. Quelli che hanno vinto sono felici perché non avevano alcuna ragionevole attesa di farcela. Quelli che hanno perso sono preoccupati per i danni di lungo periodo che potrebbe avere per il Paese, ma anche per la sicurezza e la stabilità dell’Europa se altri dovessero ritenere di poter seguirne l’esempio».
Una situazione incerta.
«L’incertezza sta avendo un impatto negativo e spiacevole. Prima si risolve la questione e meglio sarà per tutti».
Sono tempi di guerre commerciali. Che ruolo avete?
«La nostra filosofia è quella di guardare agli accordi commerciali, ma anche di concentrarsi allo stesso tempo sulla facilitazione degli scambi. La maggioranza dei Paesi del Commonwealth si basa sulla common law, così l’interoperabilità legale è molto più elevata rispetto a quello europeo dove i sistemi legali sono 24 per 28 Paesi. È più pratico. Abbiamo 585 miliardi di dollari di commercio interno nonostante l’assenza di accordi e stimoli particolari. Siamo un modello per l’interoperabilità commerciale».
Vista la componente africana, anche facilitare il commercio serve a frenare le migrazioni?
«Certo. Si tende oltretutto a dimenticare che le migrazioni sono provocate anche dal cambiamento climatico. Troppe volte abbiamo preso decisioni singole che si sono rivelate insufficienti. I problemi non sono separati, e non si può limitare la povertà senza affrontare il cambiamento climatico».
Che peso ha Elisabetta al vertice del Commonwealth?
«La regina ha amato il Commonwealth per tutta la sua vita. Nel 1953, in una trasmissione radiofonica, è stata il primo leader che ha parlato di eguaglianza fra le genti e i nostri Stati. Nel 1961, il Commonwealth era in crisi, e molti l’avevano avvisata di non andare in Africa. La regina non aveva mai chiesto a nessuno di ballare. I suoi consiglieri erano inquieti per la possibilità che danzasse con un leader africano. Ma lei non lo era, e quando si accorse che nessuno stava ballando, si fece avanti invitò il capo di Stato, “dovemmo cominciare, non crede”. È sempre stata per la parità di diritti, una forza tranquilla ma potente. Il motivo per cui la gente la ama e la rispetta non è perché è la regina, ma perché è Elisabetta II. E per 70 anni ha mostrato piena devozione e passione nei confronti del Commonwealth».