11 maggio 2019
Tags : Maurizio Belpietro
Biografia di Maurizio Belpietro
Maurizio Belpietro, nato a Castenedolo (Brescia) il 10 maggio 1958 (61 anni). Giornalista. Fondatore e direttore (dal 20 settembre 2016) de La Verità. Direttore di Panorama (dall’8 novembre 2018; già dal 2007 al 2009). Già direttore di Libero (2009-2016), il Giornale (2001-2007), Il Tempo (1996-1997). Conduttore televisivo. «Sono stato licenziato una prima volta nel 1997 e una seconda nel 2016. Ai miei editori non piaceva che scrivessi contro il potente di turno, consentendo da direttore la pubblicazione di notizie che gli altri giornali non pubblicavano. Nel corso degli anni sono stato più volte escluso da trasmissioni televisive perché le mie domande o le mie riflessioni non erano gradite a qualcuno. Ciò nonostante, non ho mai fatto la vittima» • «Se faccio il giornalista, […] la colpa è di Giampaolo Pansa. […] Ero un ragazzo con nessuna conoscenza del mondo quando cominciai a leggerlo sul Corriere della Sera. Avevo 16 anni, e a Brescia, la mia città, era appena scoppiata la bomba di piazza della Loggia, in cui morirono 8 persone e 102 rimasero ferite. Di politica non capivo niente, di terrorismo neanche. Per comprendere che cosa fosse successo cominciai a leggere qualsiasi cosa mi capitasse sotto mano, il quotidiano di via Solferino in particolare. Fu così che mi innamorai di Pansa, delle sue cronache e della sua prosa da scrittore-narratore. […] Fu Pansa, insomma, a farmi innamorare di questo mestiere, e quando, divenuto corrispondente di provincia per il quotidiano Bresciaoggi, mi capitò di sfiorarlo in redazione, di passaggio per la presentazione in città di un suo libro, mi sembrò di aver incontrato il Papa». A Bresciaoggi aveva esordito, giovanissimo, nel 1975. «Gira la voce che tu fossi di sinistra, da giovane. “Ebbi una vaga simpatia per i socialisti. Scrissi anche per l’Espresso”. Questa è una notizia. “Avevo scoperto che il ministro Pedini, democristiano doroteo bresciano, ministro della Pubblica istruzione, aveva destinato i fondi degli edifici sperimentali scolastici quasi esclusivamente al suo collegio elettorale. Scrissi un pezzo e successe il pandemonio. Allora chiamai Renzo Di Rienzo, capo della redazione milanese dell’Espresso, e gli proposi un articolo. Mi disse: ‘Scrivici sessanta righe’. Le scrissi, e cominciò la mia collaborazione”» (Claudio Sabelli Fioretti). «“Avevo 21 anni ed ero finito a fare il Car a Macomer, in Sardegna. Lì, all’ufficio destinazioni, trovai un mio compaesano bresciano che mi spedì come caporale secondino a Peschiera del Garda. E per me, che abitavo a Palazzolo sull’Oglio, fu una fortuna. Ma nessuna raccomandazione, giuro”. Maurizio Belpietro […] nel 1979 è stato per sette mesi sorvegliante del carcere militare più temuto d’Italia. Ci finivano gli obiettori che rifiutavano la naia: “C’era un centinaio di testimoni di Geova, qualche anarchico. E soldati che commettevano reati, come un napoletano che aveva svaligiato l’armeria della sua caserma. Mi mandarono anche in missione nell’altro carcere militare, a Gaeta, dove c’era ancora il maggiore Reder, il boia nazista di Marzabotto”. Che ricordi ha? “Beh, era un vecchio edificio asburgico, condizioni igieniche non straordinarie. Io lavoravo già da giornalista, mi occupavo di sindacato, e una volta mi telefonò il segretario della Camera del lavoro di Brescia Carlo Panella. Dal centralino urlarono: ‘Belpietro, Panella al telefono!’. Il tenente mi diede subito 36 ore di permesso. Capii il perché quando rientrai: di fronte al carcere c’era stata una manifestazione antimilitarista con Pannella, il capo dei radicali. Mi avevano allontanato: temevano che fossi un loro complice”» (Mauro Suttora). «“Nel 1980, mi occupavo di lotte sindacali a Bresciaoggi: un litigio con il direttore, e sei mesi lontano dal giornale. Da settembre a febbraio lavorai per l’ufficio studi della Uilm. […] Il tempo di capire che non avrei studiato i contratti di lavoro, ma avrei dovuto occuparmi dei comunicati e dei discorsi dei funzionari”. Il giornalista Maurizio Belpietro, tornato a Bresciaoggi, era detestato già allora? “Non me la passavo meglio di oggi. Ricordo le telefonate nel cuore della notte e le minacce dall’area dell’autonomia, con le immancabili promesse di gambizzazione”. Sul muro della piazza principale di Palazzolo, il suo paese, comparve una scritta gigantesca: “Belpietro infame”. “Avevo fatto un’inchiesta sul traffico di droga a Brescia, in cui pubblicai orari, luoghi e auto usate per i rifornimenti”» (Andrea Marcenaro). Poco dopo conobbe Vittorio Feltri, con il quale iniziò un lungo sodalizio, non privo di contrasti. «Lui era già caposervizio del Corriere della Sera, io praticante di un piccolo giornale di provincia. Il quotidiano si chiamava Bergamo Oggi e il suo direttore, per contrasti con l’editore, ebbe la brillante idea di fondare un’altra testata [Il Giornale di Bergamo – ndr], portandosi via tipografi e giornalisti. L’unico a non seguirlo fui io. In una redazione deserta rimasi ad aspettare per due giorni che l’editore si decidesse a nominare il nuovo direttore, e alla fine arrivò Feltri. All’inizio credo di essergli stato cordialmente sulle balle, ma dopo un mese mi promosse suo vice, anche se in base al contratto non avrei potuto impartire ordini neppure all’usciere. Ma Vittorio è così, uno che salta le convenzioni e va al sodo. E la sostanza è che, in quel piccolo giornale di provincia e con una redazione di ragazzi che prima d’allora non avevano mai fatto i cronisti, ci divertimmo come matti». «Nel libro scritto con Stefano Lorenzetto (Il Vittorioso, Marsilio editore), Feltri racconta che Belpietro arrivava al giornale con una Fiat 126. “Una scatolina. Era tutto precisino, indossava i pulloverini con i colorini, quasi sempre grigio orfanotrofio. Ma era intelligente. E un po’ sospettoso. Mi guardava con un sogghigno. Pensai: ’sto qua mi sarà pure un po’ antipatico, però ci sa fare. Allora cominciai a fraternizzare, e gli delegai la guida del giornale in mia assenza. Aveva 25 anni, un ragazzino. E così in estate riuscimmo a far fallire Il Giornale di Bergamo: gli tagliammo l’erba sotto i piedi”. Il sodalizio inizia così, con un sicuro fallimento ribaltato in successo. […] Feltri se ne riparte per il Corriere, direttore Piero Ostellino. Anche Belpietro approda in Rcs, a Gente Money e poi a Capital. Un bel giorno, a Vittorio chiedono di assumere la responsabilità dell’Europeo, ennesima gatta da pelare, altra redazione vuota: i giornalisti non vogliono l’orobico, si mettono in sciopero, nemmeno lo fanno entrare in ufficio. E Feltri pensa di spartirsi la patata rovente con Belpietro, vicecaporedattore, poi caporedattore centrale. Andò a finire come qualche anno prima: copie in vertiginoso aumento. Segue altra migrazione della coppia, definitivamente saldata. Stavolta ai due rifilano un bel rottame: L’Indipendente di Levi, tanto azzimato e pulitino da essere ridotto alla canna del gas. […] Feltri […] si fa qualche scrupolo a coinvolgere Maurizio. Lasciare un posto prestigioso e sicuro per montare su una bagnarola non è consigliabile. “Però Belpietro”, racconta ancora il Vittorioso, “buttò il cuore oltre l’ostacolo: ‘Sono pronto a seguirti’. Gli feci presente tutti i rischi, com’era mio dovere. Fu molto deciso. E così c’imbarcammo nella folle avventura”. […] Fuori infuria Tangentopoli, dentro L’Indipendente si macinano titoli da antologia: “Sgominata un’altra giunta”; “De Mita perde la bicamerale ma gli rimane l’attico”; “Primo Greganti, secondo Occhetto”» (Francesco Borgonovo). «All’Indipendente, dove arrivammo un soffio prima che lo chiudessero, ci mettemmo a sfottere parlamentari e ministri della Prima Repubblica. Convinti che ormai per il quotidiano di via Valcava non ci fosse più nulla da fare, alla sera ci chiudevamo nel mio ufficio sparando un titolo più irridente dell’altro, facendoci beffe di chiunque. Il giorno in cui Scalfaro venne nominato presidente della Repubblica, ricordo che pubblicammo in prima pagina il brano di un manuale di psicologia in cui il Campanaro era citato come un caso clinico, per i problemi di relazione con l’altro sesso. Ovviamente, sotto il titolo “Ecco chi è il nuovo capo dello Stato”». «Il quotidiano decolla, mette in difficoltà persino quel mostro sacro del Giornale di Indro Montanelli. Infine, succede quel che doveva succedere. Montanelli se ne va da Via Negri per fondare La Voce. Bisogna trovarne il successore, altra incudine pesantuccia da sbattere in testa a qualcuno che sia abbastanza duro di zucca da scornarcisi. Ecchicchiamerai? Vittorio Feltri e Maurizio Belpietro. Ci pensano un po’ su, i lumbard. Non sono mica sicuri. Aneddoto di Belpietro: “Eravamo incerti. Decidemmo di estrarre a sorte. Abbiamo messo dei bigliettini in un barattolino dei Tratto Pen che avevo sulla scrivania, abbiamo chiamato un redattore che passava di lì e gli abbiamo detto: ‘Pescane uno’. E così siamo andati”» (Borgonovo). «“Quando entrammo […] io e Feltri, era il gennaio del 1994. Si sentiva molto la presenza di Montanelli”, ricorda Belpietro. Avevate paura di quello che avrebbe fatto il grande Indro? “Sapevamo che, se Montanelli fosse andato a fare un quotidiano brutto come il Giornale, con la linea politica del Giornale, con la grafica del Giornale, avremmo avuto la vita dura. Ma Montanelli scelse di fare un quotidiano fantasioso, lezioso, che si inventava tutti i giorni copertine con Berlusconi in orbace, cose bizzarre, da Manifesto, e ci lasciò il campo libero. I montanelliani rimasero con noi. In compenso, si portò via i redattori, consentendoci una grande ristrutturazione incruenta. Vittorio ed io eravamo strafelici. Se ne fossero andati altri dieci…”. Quanti se ne andarono? “Una cinquantina. Lucio Lami scrisse: ‘Ho capito che nella vostra banda non c’è bisogno di un violino come me’. Io gli risposi: ‘Violino? Trombone!’. Una battuta scortese. Me ne vergogno ancora oggi”» (Sabelli Fioretti). «È l’inizio del ’94, il quotidiano di via Negri raddoppia le copie; La Voce di Montanelli, con i suoi Marco Travaglio al seguito, chiude. In seguito, non son tutte rose e fiori. […] Belpietro se ne va al Tempo di Roma. E ci resta il tempo necessario a inimicarsi Scalfaro, che brigherà per farlo cacciare. Feltri resta al Giornale, per andarsene dopo un fugace rendez-vous con Belpietro – non senza polemiche» (Borgonovo). Dal Tempo «“sono stato licenziato in tronco perché non mi sono piegato al volere dell’editore”. Chi ti ha licenziato? “Bonifaci, l’editore del Tempo di Roma”. […] “Lo scoop più grosso lo feci quando seppi che Antonio Baldassarre, ex presidente della Corte Costituzionale, raccontava in giro che un generale gli aveva raccontato che per stoppare il referendum sulla Guardia di finanza era andato da Scalfaro, che a sua volta era intervenuto su due membri della Corte costituzionale. Io mi feci invitare a una cena, mi misi vicino a Baldassarre e ascoltai il suo racconto, che il giorno dopo finì sul giornale. Al confronto il Watergate era una marachella”. Che cosa successe? “Nulla. Si mosse solo il mio editore, chiedendomi di non attaccare più Scalfaro”. Dopo pochi giorni ti ha cacciato. “Voleva anche che nascondessi la notizia dell’avviso di garanzia a D’Alema”. Roma inciuciona. “L’editore voleva un giornale contro Rutelli, che non gli concedeva delle aree edificabili. Ma io non faccio il killer per nessuno”» (Sabelli Fioretti). «Belpietro si affranca [da Feltri – ndr], prova il gusto della direzione al Tempo di Roma e arriverà a sfilare dalle mani di Feltri prima il Giornale, nel 2001, poi Libero, nel 2009, e spesso fa meglio del maestro. I due non sono mai arrivati allo scontro e all’insulto, la loro rivalità è sempre stata fatta di allusioni, covata guardandosi da lontano con reciproca sprezzatura. Le cose cambiano con l’avvento dell’èra renziana. Quando l’editore di Libero e parlamentare di Forza Italia, Antonio Angelucci, decise di allontanare Belpietro, si disse che era una manovra ispirata da Verdini per svelenire almeno un po’ l’anti-renzismo del quotidiano. Belpietro aveva più volte detto di voler votare “no” al referendum costituzionale, così ecco arrivare alla direzione Feltri, che invece si era convinto per il “sì” e aveva cercato di convincere anche Berlusconi. Ma Feltri a fare il renziano di complemento non ci sta, e ribalta l’accusa niente meno che su Belpietro con una lettera a Marco Travaglio condita di qualche malevola indiscrezione: “Quando si dice che Belpietro è stato cacciato perché antirenziano e io ripreso a Libero perché renziano, si prende un granchio. Perché Renzi non l’ho mai visto, se non in tv. Mentre so con assoluta certezza che Belpietro si è scomodato ben due volte, per andare a Palazzo Chigi, dove ha incontrato il presidente del Consiglio in carica, con cui, in entrambe le circostanze, ha fatto colazione”» (Giancarlo Loquenzi). Sostituito da Feltri alla direzione di Libero il 17 maggio 2016 («Come in ogni giornale, l’editore è sovrano e io mi faccio da parte»), già il 20 settembre successivo Belpietro lanciò un nuovo quotidiano, La Verità, da lui fondato e diretto. «Un nuovo quotidiano che arriva nello stesso giorno in cui nelle librerie esordisce I segreti di Renzi (Sperling & Kupfer): libro e giornale ognuno traino dell’altro. […] Verità in russo si dice “Pravda”. Un caso? “Se è per quello, il nome lo aveva usato anche Nicola Bombacci per la sua rivista… Non è un titolo presuntuoso, ma provocatorio: scriviamo quello che sappiamo, e se abbiamo dubbi non li nascondiamo certo”. Per lo stesso motivo ha scritto il libro su Renzi, su quello che lei chiama il “giglio magico”, sull’attività imprenditoriale del padre del premier, sulle vicende di Banca Etruria, sulla famiglia Boschi? “Avevamo già fatto un’inchiesta su Libero, prima sulla casa che gli aveva ‘prestato’ Marco Carrai, poi sulle carte dell’indagine che riguardava il padre del premier. Per la prima vicenda Renzi mi aveva telefonato, chiedendomi quando avrei smesso di dargli fastidio; per la seconda ho lasciato la direzione, visto che l’editore non gradiva quegli approfondimenti”» (Elisabetta Soglio). Un paio d’anni dopo, il 1° novembre 2018, la società editrice de La Verità rilevò da Mondadori Panorama, storico settimanale ormai sull’orlo del fallimento; ad assumerne la direzione fu lo stesso Belpietro. La sua duplice scommessa sulla carta stampata può oggi dirsi vinta. «“Quando ho fondato La Verità, non mi sono forse neanche reso conto di quanto sarebbe stata complessa l’impresa. Però follia e passione alla fine si sono tradotte in un risultato di successo. […] Abbiamo raggiunto tutti i nostri obiettivi”. Ossia? “Io dicevo: ‘Venderemo tra le 20 e le 30 mila copie’, ma persino lo stampatore era scettico: ‘Se sarai bravo, ne venderai 10 mila’. Invece, eccoci qua: in un mercato saturo d’informazione, dove si dice che i giornali sono morti, vendiamo le copie che avevo immaginato, con un trend di crescita del 13%, in assoluta controtendenza”. E qual è il segreto? “Facciamo un giornale diverso dagli altri, noiosi e pensati come fossimo ancora nel ’900, ossia prescindendo dal fatto che esistono la televisione, la radio, internet e gli smartphone. Raccontano quello che il lettore già sa, magari da ore. Quasi dovessero loro certificare le notizie. Ma non è più così: si deve andare a caccia di notizie nuove, raccontare storie diverse, avere il coraggio di fare inchieste e avere opinioni controcorrente e originali. […] All’inizio ho cercato di radunare un gruppo di amici imprenditori che ci sostenessero con tante piccole partecipazioni, senza che nessuno avesse il controllo della testata; alla fine mi sono ritrovato ad essere io l’azionista di maggioranza, e forse è stata la soluzione migliore. Perché mi ha consentito di garantire alla redazione tutta l’indipendenza necessaria”. E, non contento, pochi mesi fa ti sei lanciato in una nuova avventura con Panorama… “Sai qual è la cosa più bella? Ricevere le lettere di tanti abbonati che erano sul punto di disdettare l’abbonamento e hanno cambiato idea. E anche in edicola stiamo crescendo dal 20% fino al 30% ogni numero. Io Panorama l’avevo diretto dieci anni fa, quando i settimanali erano ancora importanti e raccoglievano tanta pubblicità. Ora è cambiato tutto, ma ho deciso di scommetterci di nuovo”» (Marco Mancini) • La linea sempre più esplicitamente salviniana de La Verità ha però causato, nel luglio 2018, la defezione di una delle sue firme più prestigiose: quella di Giampaolo Pansa. «“Quando un direttore, in questo caso Belpietro, conclude un suo articolo di fondo – è vero che ne produce uno al giorno – scrivendo ‘Forza Salvini’, eh beh…”. “Eh beh” cosa? “Non mi piace! Io non ho mai gridato ‘Forza Salvini’, non ho mai gridato ‘forza’ nei confronti del politico di turno”. […] Non ha digerito quel peana, insomma. “Ma che fai? Scrivi ‘Forza Salvini’? Ma vaffanculo! Io non ci sto, in un giornale che vedo in preda a una deriva salviniana pazzesca. E non vale solo per quel giornale, intendiamoci. […] Salvini è pericoloso, perché è uno sbruffone, perché ha attitudini violente, perché è un accentratore, perché il potere gli piace troppo. Insomma, come facevo a restare a La Verità? Belpietro era venuto sin qui ad arruolarmi. Ma questa adesione totale, piena al salvinismo non mi convince e non la tollero”» (Pansa intervistato da Goffredo Pistelli) • Alcune trasmissioni televisive da lui condotte sulle reti Mediaset (L’antipatico, La telefonata di Belpietro, Dalla vostra parte) • Varie vicissitudine giudiziarie legate alla sua professione. «“Noi direttori viviamo in un clima di libertà vigilata. […] Finché ho fatto il giornalista, non ho mai ricevuto una querela; poi, da quando, 22 anni fa, ho iniziato a fare il direttore, ne ho prese centinaia”. Di che tipo? “Spesso per titoli scritti da altri, per ragioni pretestuose, per opinioni altrui a cui devo rispondere io, davanti a un magistrato. Situazioni assurde”. […] “Nel 2010 mi querelano per un documento pubblicato su Libero, che dirigevo, a proposito delle Coop rosse. Il giorno in cui fu messo in pagina, io avevo dei gravi problemi di salute, stavo facendo dei controlli, ma per la legge dovevo comunque rispondere io: ridicolo”. La causa per il famoso titolo "Bastardi islamici" [apparso su Libero all’indomani degli attentati terroristici di Parigi del 13 novembre 2015 – ndr] intentata da alcuni esponenti del mondo musulmano, però, l’ha vinta. “Ho semplicemente spiegato ai giudici che ‘bastardi’ era il sostantivo e ‘islamici’ l’aggettivo, quindi non ritenevo che tutti gli islamici fossero bastardi, ma che quelli (i terroristi) fossero islamici”. Il caso più eclatante? “Quello per cui mi rivolsi alla Corte europea, che mi diede ragione. Dirigevo il Giornale, e pubblicammo un articolo del senatore Raffaele Iannuzzi su alcuni magistrati della Procura di Palermo. I magistrati fecero causa al senatore, che però se la cavò con un ‘non luogo a procedere’ per via dell’insindacabilità, e quindi a processo ci andai solo io. In primo grado fui assolto, in secondo mi diedero 4 mesi. Feci appello alla Corte europea, che diede ragione a me e torto alla Stato italiano: la pena detentiva per la diffamazione è contraria all’articolo 10 della Convenzione”» (Selvaggia Lucarelli) • Grande clamore destò la notizia di un attentato contro Belpietro sventato dal suo caposcorta la sera del 30 settembre 2010 a Milano, all’interno del palazzo in cui risiedeva il giornalista, che però al momento dei fatti si trovava già all’interno del proprio appartamento, e udì solamente l’esplosione di tre colpi d’arma da fuoco; in seguitò, tuttavia, alcuni elementi – tra cui la mancata individuazione del presunto attentatore, e qualche stranezza nella versione dell’agente – indussero i magistrati a richiedere l’archiviazione del caso, escludendo «con ragionevole certezza l’ipotesi che i fatti siano riconducibili a un preordinato piano di attentato alla vita del dottor Belpietro» • Sposato, due figlie • «Documentato, tignoso, compassato. Non si scompone mai e non si lascia intimidire da nessuno. Finché non ha esposto tutte le argomentazioni che ha in testa, non demorde. Un avversario fra i più temibili per i suoi contraddittori. Il profilo camuso da guerriero troiano e il ghigno beffardo con cui li affronta rafforzano la sua allure da primo della classe. Ha un unico, grave torto: è un cane sciolto, non si è mai affezionato ad alcun partito né, forse, ad alcuna persona che non sia lui medesimo» (Vittorio Feltri). «Sembra pacato, bonario: invece adora toni forti e titoloni appuntiti» (Cesare Lanza). «Con quell’aria sorniona che mi piace tanto manda in tilt gli avversari» (Emilio Fede). «È uno molto amato in redazione perché, a differenza di tanti direttori, è uno stacanovista che si documenta in modo quasi maniacale. Inoltre è aperto e cordiale con tutti, a differenza di Feltri, che ha una ritrosia innata» (Luigi Bisignani). «Passione, curiosità e un approccio sempre originale, che sfruculia dietro la patina dei déjà-vu senza concessioni ai conformismi del politicamente corretto. […] Niente di più lontano da quella vulgata immagine televisiva che lo vuole spesso irritante e tacciato di supponenza. Una maschera su cui ha giocato fin dalle prime apparizioni sul piccolo schermo, arrivando ad adottare come titolo della trasmissione da lui condotta dal 2004 al 2008 sulle reti Mediaset il commento di due signore milanesi incrociate per strada: “L’hai visto? Quello è il giornalista antipatico che è sempre in tv”» (Mancini) • «Quante volte mi è capitato di essere insultato e inseguito per strada da chi ce l’aveva con me. Non è piacevole, ma neppure il punto più basso. L’orrore si raggiunge quando ti urlano “Vergogna!” senza fermarsi nemmeno di fronte alle bambine […] che tieni per mano. Allora vedi i mostri, persone pronte al linciaggio con in corpo una violenza cieca e assurda. Loro sono i veri orchi» • «Un modo di attacco agli avversari che lei stesso, col senno di poi, avrebbe evitato? Un mezzo linciaggio personale che le piacerebbe non avere fatto? Scuse da porgere a qualcuno? “Non ho linciaggi sulla coscienza. Di errori, credo, a dozzine. Mi è dispiaciuto pubblicare un’indiscrezione sui ministri Altero Matteoli e Sandro Bondi circa un loro coinvolgimento con la cricca. Non era vera e mi è costata l’amicizia di persone che conosco da anni. Sono effetti collaterali di un mestiere che a volte, per l’ansia del buco, ti porta a far del male a persone perbene”. Parlavo di scuse agli avversari. “Non ho mai linciato gli avversari, se è questo che intende. Accuso, polemizzo, ironizzo, semplifico. Ma, ripeto: non lincio”» (Marcenaro). «Si definirebbe simpatico? “Mi vuole rovinare la fama?”» (Renato Catania).