Il Messaggero, 11 maggio 2019
Ritratto di Leonardo Sciascia
La casa editrice La nave di Teseo ha ristampato, dopo più di vent’anni, il libro di Matteo Collura, Il Maestro di Regalpetra, sulla vita del suo amico Leonardo Sciascia. Collura non è solo scrittore e critico acuto; è un siciliano autentico, ed un sensibile interprete della complessità di quella regione straordinaria, dove chi ci abita se ne vorrebbe andare e chi si ne è allontanato vorrebbe ritornare al più presto. Non per nulla nell’epilogo del libro l’autore compendia questi sentimenti nella frase di Ovidio nec tecum nec sine te vivere possum, rivolto non a una donna ma alla propria terra. E la dolorosa e gioiosa difficoltà di esser siciliani è un motivo dominante della vita di Sciascia.
Aggiungiamo che questa iniziativa editoriale è benemerita, perché mai come oggi il pensiero del protagonista è attuale e istruttivo. Sciascia infatti fu certamente uno scrittore di ispirazione originale e di stile cristallino. Ma fu soprattutto un alfiere del pensiero liberale e libertario, una voce dissonante in un paese dove la cultura clericale si era ambiguamente coniugata con quella marxista, sotto quel conformismo servile che contrassegnava (e contrassegna) molti intellettuali italiani, quasi sempre allineati al potere dominante, soprattutto quando fingevano (e fingono) di contrastarlo.
FLASHBACK
Naturalmente è impossibile riassumere in poche righe le oltre 400 pagine del libro, che è insieme una biografia e un saggio letterario. Segnaliamo al lettore che, come nei flashback cinematografici, si apre con l’epilogo dello scrittore, prosciugato nel corpo da una malattia implacabile, e ormai vicino al momento finale che lui stesso aveva indicato come ultima suprema curiosità intellettuale. Collura ci racconta come Sciascia avesse sperato di poter descrivere questo momento con la stessa efficacia di Tolstoi nella Morte di Ivan Ilich, e purtroppo non ci era riuscito. Ma è una mancanza che gli perdoniamo, perché in realtà tutta la sua vita era stata una preparazione a una morte senza certezze ma senza disperazione. Dubitando di tutto, anche dei suoi dubbi, quell’indomito laico radicale non si era mai definito né ateo nè agnostico. Forse, come il suo amato Pascal, pensava che se moquer de la philosophie c’est vraiment philosopher.
Tuttavia questi dubbi di Sciascia non si esaurivano in una sterile e rassegnata inattività. Ed è questa la sua gloria. Dagli illuministi francesi e da Anatole France, che ne era stato l’ultimo epigono, aveva ereditato l’ironia e la pietà: la prima che sorridendo alle contraddizioni della vita la rende amabile, e la seconda, che piangendo sulle sue disgrazie la rende sacra. Sciascia colse le stramberie degli eventi, e le convertì in un umorismo fatalistico; ma ne soffrì anche le tragedie, che cercò di coniugare con un’etica rigorosa e una difesa granitica dei diritti umani, contro l’esercizio di un potere che talvolta, e purtroppo spesso, diventa sopruso. Non era stato un cammino facile. Affascinato, come molti, dal messaggio di solidale fraternità di Carlo Marx, Sciascia aveva aderito al comunismo sino a candidarsi, sia pure come indipendente, alle elezioni del 1975. Ma ne era uscito subito, appena la politica gli aveva rivelato il volto trucido e totalitario di quella ideologia.
LE CONNIVENZE
Avvicinatosi al partito radicale, era diventato l’alfiere del garantismo anticonformista e libertario. La passione civile che gli aveva procurato le interessate simpatie della sinistra, quando aveva denunciato le connivenze tra la mafia e i potentati locali, si dissolsero quando lo scrittore, senza cambiare le proprie idee, cambiò la direzione delle critiche. Riteneva che fosse riduttivo accusare un partito solo: malanni come la corruzione, l’omertà e l’ambiguità morale erano troppo diffusi per essere esclusiva di una casta di latifondisti reazionari. Forse è per questo che i suoi romanzi polizieschi si concludono in modo incerto e misterioso, senza la scoperta del colpevole e senza la ricostruzione dei fatti. Forse il male è così evanescente e diffuso, che è difficile afferrarlo nella sua materialità, e impossibile tradurlo in carte processuali.
Non guasteremo al lettore il piacere di ripercorrere passo passo la sua vita straordinaria. Collura la ricostruisce con diligenza e amore, e forse la parte più commovente è quella dedicata all’ambiente di Racalmuto, dove Sciascia era nato nel 1921: un ambiente di grassazioni e delitti, di miniere abbandonate e desertici valloni, di bambini rachitici e di famiglie alla fame. Il desiderio di riscatto da questa zolfara produsse il miracolo di trasformare il figlio di un modesto impiegatuccio nel più illuminato e internazionale dei nostri scrittori. Anche questa è una lezione di vita e di ottimismo, perché quando l’intelletto si coniuga alla volontà lo spirito umano è capace di elevarsi oltre ogni ostacolo sociale e ambientale.
LA CORRUZIONE
E Sciascia, da semplice maestro elementare, progredì sino a diventare un maestro dei maestri. Univa a una cultura immensa un’intelligenza sensibile e forse per questo ebbe della natura umana una visione pessimistica. Ma nonostante queste dolorose perplessità non interruppe mai la sua crociata libertaria. Quell’ecrasez l’infame, che Voltaire aveva scagliato contro il bigottismo fanatico, Sciascia lo indirizzò al manettarismo giacobino, che sotto parvenze etiche mascherava e maschera ancora la tracotanza dell’ottusità. Anticipò con la lungimiranza del genio i rischi mortali dell’affievolimento delle garanzie individuali, e delle funeste contaminazioni tra una magistratura aggressiva e una politica fiacca e snervata. Comprese per primo che, come l’ira del buono è la più furibonda, e la corruzione del migliore è la più nefasta, così l’ingiustizia dell’apparato giudiziario è la più insidiosa, perché sotto le ingannevoli parvenze della legalità nasconde la sostanziale violenza del potere.
LA DIAGNOSI
Poi, come tutte le commedie, anche le più belle, arrivò il finale inevitabilmente triste. Collura rievoca con rigore quasi scientifico la diagnosi di mieloma micromolecolare fatta da Nicola Dioguardi, il grande clinico spentosi nei giorni scorsi, che prospettava a Sciascia pochi mesi di vita. Quindi la chemioterapia, la dialisi, la sedia a rotelle, e l’ultimo libro, Una storia semplice arrivato in libreria il giorno stesso della sua morte: un romanzo di furti, omicidi, ambiguità e anche colpi di scena, tutti finalizzati a farci scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla Giustizia. La Giustizia, sempre lei, quasi un’ossessione. Perchè Sciascia fu essenzialmente un uomo buono e giusto. Forse per questo chiese di esser ricordato con queste parole: Aspiro, per quando sia morto, a una lode. Che in nessuna mia pagina è fatta propaganda per un sentimento abietto o malvagio.