il Fatto Quotidiano, 11 maggio 2019
Biografia di Al Baghdadi, il califfo col Rolex
Dicono fosse un bambino educato e introverso Al Baghdadi, il macellaio in capo del vero Dio, ricomparso in video dopo 5 anni di vuoto riempito con i 500 mila cadaveri della guerra siriana. E dopo che anche le ceneri del suo clamoroso Califfato, esteso tra Siria e Iraq, sono state disperse dal vento. Così come le notizie della sua morte data per certa dai servizi segreti russi un anno fa, probabile dagli americani, auspicabile da tutto il resto del mondo appena imbrattato dal nuovo sangue versato in Sri Lanka. Dicono che da bambino girasse “tutto il giorno da solo in bicicletta” nella polvere di Samarra sua città natale, riva est del Tigri, pochi chilometri da Baghdad, dove il minareto costruito nel IX secolo sale a spirale verso il cielo, come una premonizione del nulla che fronteggia. E dove, lasciata la polvere dei giochi, Al Baghdadi si è fatto dottore in Teologia per trasformare le parole del libro in lame di coltello e tutte le antiche e sussidiarie compassioni in questa moderna crudeltà che loro chiamano guerra santa e noi terrorismo globale. Una metastasi che ci assedia da quando l’Occidente si è messo in testa di esportare la democrazia con le bombe, in cambio del petrolio.
Il califfo – nel video diffuso lo scorso 29 aprile – compare nel colore che gli si addice, l’ombra. È seduto per terra, le gambe incrociate, il corpo appesantito, la barba incolta per metà ridipinta in rosso alla maniera dei salafiti, il Kalashnikov appoggiato alla sua destra, omaggio al suo primo ispiratore, Osama bin Laden. E a tutti gli altri tagliagole liquidati in questi anni dallo stesso odio che ancora lo tiene vivo. Elogia gli attentatori dello Sri Lanka. Dice: “La battaglia contro la croce e i crociati sarà ancora lunga”. Parla come un generale del Dodicesimo secolo, ma agisce come un impresario teatrale del Ventunesimo.
Era sparito dai radar dei suoi inseguitori nei lunghi anni del trionfo jihadista a salvaguardia della sua pelle, oltre che per strategia mediatica. Una sola volta, nel 2016 la sua voce era stata registrata per 45 secondi dalle parti di Mosul, parlava via radio ai suoi ufficiali, e una catena di triangolazioni satellitari aveva provato a stanarlo, salvato all’ultimo da quegli ingranaggi della sua sicurezza che lo hanno tenuto al riparo dai droni fino a oggi. Quell’errore non lo ha più commesso.
La sua catena di comando – secondo i Servizi iracheni – è assicurata solo da messaggeri. Niente telefoni. Gli spostamenti rigorosamente coperti dentro a quei taxi collettivi o carovane, dove si muove la moltitudine delle sue vittime, i 5 milioni di profughi in cerca di acqua e vita. Tutti fuggendo da quell’inferno che le religioni monoteiste prima o poi allestiscono in questa vita, promettendo il paradiso in quell’altra.
Abu Bakr al Baghdadi nasce nel 1971 da famiglia sunnita. Studia, gioca a calcio, si sposa. Nel febbraio 2003, a 32 anni, finisce in una retata degli americani che a ondate perlustrano i quartieri di Baghdad. Ma quando entra a Camp Bucca, lo registrano come “detenuto comune”. È dietro a quel filo spinato che per una dozzina di mesi entra in contatto con tutte le formazioni combattenti, al Nusra, al Qaeda, la Fratellanza musulmana, che scandiscono le giornate di detenzione con preghiere e proselitismo. Si scopre buon mediatore tra le fazioni e un eccellente discepolo degli ex ufficiali di Saddam che insegnano a fare la guerra.
Torna libero un anno dopo. E va a fare quello che ha appena imparato unendosi alle sacche di resistenza che tra Iraq e Siria combattono gli infedeli. Diventa un comandante agli ordini di Al-Zarqawi, giordano, esperto di autobombe e decapitazioni, per un paio di anni re del terrore che firma attentati a Casablanca, Istanbul, Amman, ucciso in un bombardamento degli Usa nel 2006.
Lo sostituisce Al Masri, iracheno, anche lui stratega della “guerra di logoramento” contro gli invasori. Sotto il suo comando, Al Baghdadi fa carriera, entra nel consiglio militare, diventa responsabile degli affari religiosi. È il 2010. L’anno in cui anche Al Masri viene ucciso in uno scontro a fuoco a Tikrit e questa volta tocca a lui il comando. Provando a immaginare qualcosa di più grande dei suoi predecessori.
L’idea di uno Stato islamico era nata nel 2003, subito dopo l’invasione americana in Afghanistan, ma troppe divisioni nello scacchiere degli islamisti e troppe pressioni in contrasto tra loro, lungo i confini di Iraq, Siria, Libano, Iran, l’avevano sempre soffocata. Con Al Baghdadi, l’idea diventa progetto. La rivolta cova nella Siria di Assad, nel Kurdistan iracheno, nell’Afghanistan umiliato, basta soffiare.
Dentro l’eterno gioco di specchi mediorientale non solo i russi e gli americani si confrontano per il dominio dell’area, ma anche la Turchia imperiale di Erdogan, l’Iran sciita di Ahmadinejad, l’apparato militare di Israele, gli incursori inglesi e francesi, i martiri palestinesi. Dalla dissoluzione della Libia di Gheddafi e con l’appoggio delle monarchie del Golfo, affluiscono armi pesanti, denari e la nuova parola d’ordine della riconquista islamica, che sembra avverarsi.
Al Baghdadi sa come accendere tutti i riflettori e moltiplicare la febbre di vendetta. Compare al mondo nella moschea al Nuri di Mosul, proclamandosi Califfo del nuovo Stato: “Affrettatevi o musulmani a venire con noi”. Per il nostro mondo è il 5 luglio 2014. Per il suo è l’anno 1435, inizio del Ramadan. Ha la barba, il turbante, un incongruo Rolex che spunta dalla djellaba nera. Nero diventa il colore del nuovo Stato, “il sogno che vive”, moltiplicato dalla nuova arma, le cento telecamere che in quegli anni cruciali trasformano le esecuzioni di massa in propaganda digitale. Narrando in lunghi piani sequenza le vittorie militari scandite da file interminabili di pick up Toyota armati di mitragliatrici e di bandiere, mentre entrano nelle città conquistate, Abril, Mosul, Homs, con impetuosa colonna sonora di musica e Kalashnikov. Espugnano 27 città, 60 mila chilometri quadrati di territorio, fino ai confini di Giordania e Turchia.
Dove entrano fucilano, impiccano, riducono le donne in schiave e i prigionieri in carne per le fosse comuni. Quelli che servono alla propaganda vengono vestiti con tute arancioni inginocchiati ai loro piedi, decapitati come montoni, oppure bruciati vivi dentro le gabbie. I video fanno il giro del mondo, moltiplicando orrore e proseliti, le decine di migliaia di foreign fighters che affluiscono dalle periferie delle nostre città. Attaccate anche loro con qualunque arma – a Nizza, Parigi, Bruxelles, Berlino, Londra, Barcellona – da piccolissime cellule di convertiti, ma ad alta risonanza mediatica.
L’Isis è una fiammata che dura una manciata di anni. Arruola 100 mila iracheni, altrettanti siriani, 40 mila stranieri. Odia tutti i simboli dell’occidente, tranne i dollari. Incamera centinaia di milioni dalle banche delle città conquistate, dal petrolio venduto di contrabbando, dai rapimenti, dal traffico di migranti e di opere d’arte.
Ma più velocemente di quanto è cresciuto, si sfalda sotto i bombardamenti americani e i reparti speciali che li combattono. Toccherà ai peshmerga curdi – che hanno fermato i jihadisti a Kobane – spazzare via l’ultima roccaforte dello Stato Islamico a Baghuz, sull’Eufrate, come a chiudere il cerchio, dopo il bagno di sangue che ha reso vera l’allucinazione della guerra santa. Durante la quale Al Baghdadi ha recitato poesie della tradizione, ha sognato animali parlanti, come il Profeta, trasformando le parole in sangue e propaganda. Secondo gli analisti i vestiti pesanti che indossa nel video suggeriscono che si sia rifugiato tra le montagne del Sinjar abitate dai pastori Yazidi che le sue milizie hanno sterminato.
Questa volta compare con lo sguardo e la voce dello sconfitto, niente orologio al polso, sopravvissuto a un tempo che non conta più. Sebbene la sua vita valga per gli americani ancora 25 milioni di dollari di taglia, anche senza Rolex.