Tuttolibri, 11 maggio 2019
Salinger era mio padre
La prima volta che apparve sullo schermo era un giovane nerd, nel 1984. Il ruolo più famoso è stato, poi, quello di Capitan America, l’eroe muscolare della Marvel che salva la democrazia yankee con il suo scudo magico. Attore, produttore, Matthew è anche il figlio di Salinger, lo scrittore di culto per svariate generazioni di lettori e scrittori. Sua madre è Claire Douglas che sposò J.D. giovanissima, ancora studentessa e divorziò una ventina di anni dopo. Matthew Salinger è uno dei protagonisti del Salone di Torino, dove si celebra il centenario della nascita di suo padre.
Mr. Salinger, quando l’ha letto per la prima volta il Giovane Holden?
«Avevo dodici anni, e fu durante il viaggio in auto con mia madre per andare al collegio in cui stavo per iniziare il primo anno. Avevo saputo che nel primo semestre l’insegnante di letteratura era solito analizzare Il giovane Holden, e non mi sembrava il caso di arrivare impreparato proprio sul libro di mio padre! Essendo un dodicenne, la scena con la prostituta mi imbarazzò, soprattutto immaginando che avrei dovuto discuterla in classe nelle settimane successive. Ma erano preoccupazioni eccessive perché l’insegnante (come sarebbe poi successo altre due volte, al liceo) evitò di assegnarlo come lettura durante il corso. Per anni fui convinto che l’avessero fatto per sensibilità nei miei confronti, ma in realtà credo fossero più preoccupati che io facessi scoprire che le loro opinioni su quel libro erano completamente sbagliate!»
Che sensazioni le dette quella lettura, oltre al lieve imbarazzo?
«Mi divertii moltissimo. Ricordo che risi per tutto il viaggio. Sapevo che mio padre era divertente, ma averne la conferma dalla lettura del suo libro fu una piacevole sorpresa. Ricordo anche che mi innamorai di Phoebe, o meglio, di come Holden ama Phoebe».
Qual è il libro di Salinger che preferisce?
«Franny & Zooey: ed è quello che ho letto più volte. È lì che sento più forte “la sua voce”, insieme forse ad Alzate l’architrave, carpentieri».
A proposito di voce, suo padre le leggeva libri ad alta voce quando era piccolo?
«Sì, lo faceva ogni giorno. Sia lui che la mamma: era un gesto estremamente naturale, dato che dedicavano entrambi alla lettura gran parte del loro tempo. I due libri che lui sceglieva più spesso, erano le fiabe tratte da A est del sole, a ovest della luna di Kay Nielsen e Om, The Secret of Ahbor Valley di Talbot Mundy».
Inventava anche storie originali per lei?
«Sì, e gli piaceva molto farlo. Si era immaginato due filoni di avventure “seriali”, divertenti ed emozionanti. Le storie del “campeggio” (un’attività che detestava ma che sapeva piacermi molto), e le gesta eroiche di un gruppo di personaggi eccentrici simili a pirati che viaggiavano a bordo di un sottomarino e si immergevano in fiumi e laghi oltre che negli oceani. Non sento più quelle storie da oltre cinquant’anni, eppure mi ricordo ancora con precisione i nomi dei protagonisti e alcune loro imprese».
Che libri le consigliava?
«Mi invitava a leggere qualsiasi cosa attirasse la mia attenzione. Più che veri libri, mi comprava fumetti. Andavamo alla libreria Dartmouth a cercare i nuovi albi di Tin-Tin. Amavo anche i libri di Lloyd Alexander, la serie delle Cronache di Prydain. Papà consigliava sempre agli aspiranti scrittori di “leggere voracemente”, poi, con il tempo, avrebbero “trovato la propria voce”. Credo abbia incoraggiato anche me a fare lo stesso, lasciandomi il tempo di sviluppare non una “voce” ma un “gusto”».
Come scriveva suo padre?
«Scriveva dappertutto, lasciava taccuini ovunque pensava di poterne avere bisogno, persino in macchina. A volte, mentre guidava, s’illuminava di un sorriso. Significava che gli era venuta un’idea, accostava l’auto, si fermava, e prendeva appunti sul taccuino che aveva nel cruscotto».
Richiedeva silenzio o voi bambini potevate giocargli liberamente intorno?
«Per scrivere aveva bisogno di stare solo con se stesso. Ed era il motivo per cui si era allontanato dalla città. Poco prima che nascessi si era fatto costruire uno studio per scrivere, in fondo alla collina su cui sorgeva la nostra casa: era una specie di blocco di cemento, dipinta di un verde cupo, immersa nella natura, tra il bosco più selvaggio e un ruscello da cui prendeva l’acqua per bere e farsi il caffè. Ci si arrivava percorrendo un ripido sentiero. Era stato attrezzato con uno dei primi sistemi di interfono, nel caso in cui mia madre o qualcuno di noi avesse avuto bisogno di parlargli. Di tanto in tanto ricompariva e si metteva a giocare con noi o raccontare storie. Il lavoro era un’urgenza forte per lui, ma cercava di ritagliare molto tempo per noi nell’intimità domestica. Anche perché gli piaceva farlo. Ha sempre amato più i bambini degli adulti».
Come scriveva?
«Ricordo il ticchettio della macchina da scrivere come sottofondo costante della mia adolescenza; nei fine settimana quando non c’era la sveglia per la scuola era il battere sui tasti che mi risvegliava. Se ripenso o sento quel suono, ancora oggi, provo un immenso senso di dolcezza».
Quali erano i libri preferiti di suo padre?
«Era un uomo di letture vaste oltre che profonde, e pareva leggere qualsiasi cosa! Suppongo prendesse sul serio il suo stesso consiglio di essere lettori “voraci”… Non faceva differenza tra grandi classici o romanzi commerciali. Ogni singolo libro, per lui, aveva valore. Magari anche solo per una frase, un’immagine, un personaggio. Mescolava i generi, gli autori, le letterature. Insieme a Emerson, Kafka, Isaac Newton, Søren Kierkegaard, Čechov o Montaigne, c’era un Arnold Bennett, un Saki, una Josephine Tey, un Talbot Mundy, un Ferenc Molnár, una Clarence Day. Se voleva farsi cullare da atmosfere soffuse poteva scegliere Virginia Woolf o John Buchan. Accanto a Vivekananda, Laozi, Tucidide oppure Berkeley, c’erano Heine, Basho, Turgenev, Wodehouse, Singer o un giallo di Conan Doyle. La lista dei suoi preferiti potrebbe andare avanti all’infinito. Amava sul serio gli scrittori. Erano i suoi amici, i suoi compagni di battaglia, i suoi compaesani. Spesso prendeva un libro da un ripiano della libreria soltanto perché quel giorno aveva voglia di un certo tipo di compagnia».
Qual era il posto preferito per leggere?
«La mattina e la sera gli piaceva farlo a letto. Ma l’immagine più nitida di lui immerso nella lettura è su una vecchia poltrona di pelle rossa, sistemata in un angolo del suo salotto personale, accanto a una grossa vetrata che affacciava sul patio e sulla valle del fiume Connecticut. Davanti c’era una piccola ottomana su cui poggiava i piedi. Talvolta si alzava apriva la finestra e usciva per controllare che la mangiatoia per gli uccellini non fosse a corto di semi. Un altro dettaglio che mi è rimasto impresso nella memoria è il modo in cui maneggiava i libri; quando ne prendeva uno, innanzitutto lo saggiava con le mani, a volte con delicatezza, quasi carezzandolo, altre volte con energia, come se volesse assorbirne il calore o l’energia. Lo faceva senza rendersene conto, come se volesse rassicurare se stesso e il libro: si erano ritrovati, erano felici di essere di nuovo insieme. Sapeva che ogni copertina una volta aperta spalancava le porte di un mondo. Leggere, per Salinger, era un’avventura e al tempo stesso la visita a un vecchio amico».
Aveva una biblioteca grande?
«Enorme. Ma dato che riteneva quella parola, “biblioteca”, parecchio pretenziosa, non la chiamavamo mai così. C’era una stanza detta “la stanza dei libri”, con librerie che partivano da terra e arrivavano al soffitto, disposte su tre pareti. In realtà c’erano mensole piene di libri ovunque, tranne che in cucina. Nel suo salotto personale non c’erano posti per ordinarli, finivano impilati sui tavoli, o sul pavimento accanto alla poltrona. Quando diventavano troppi li regalava. Nella cittadina dove andavo a scuola, Norwich nel Vermont, ogni autunno si svolgeva un mercatino dell’usato dove gli abitanti donavano libri per raccogliere fondi da investire nella comunità. Noi ragazzi facevamo a gara tra le varie classi a chi ne vendeva di più. Non c’era storia, vincevamo sempre noi! Perchè papà ci dava scatoloni pieni. Una volta ne caricammo ben dodici nel bagagliaio della sua Chevy Blazer».
Perché ha deciso di pubblicare gli inediti di suo padre?
«E perché non avrei dovuto farlo? Lui amava farsi leggere. Voleva che i suoi scritti arrivassero al pubblico. L’unico suo dubbio, e fu un dubbio che lo tormentò per decenni, era se farlo lui stesso o lasciare che uscissero postumi. Alla fine si convinse che pubblicarli in vita gli avrebbe procurato una nuova indesiderata attenzione, deleteria per la sua scrittura e per la sua esistenza: scelse così di non consegnarli a un editore».
Quali sorprese ci riveleranno gli inediti?
«Spero sinceramente che i lettori affrontino il materiale inedito – quando uscirà – senza aspettative preconcette. Mio padre sulle copertine dei suoi libri non voleva particolari progetti grafici, né fascette, né frasi di recensioni, nient’altro che non fosse il titolo. Se avesse potuto decidere lui, sono quasi certo che avrebbe fatto a meno anche del nome in copertina. E come si sa, non ha mai voluto che dalle sue opere si traessero film o spettacoli teatrali. Dico questo perché era convinto che la relazione tra scrittore e lettore fosse qualcosa di intimo, quasi sacro, senza spazio per intermediari, per esegeti o interpretatori di alcun genere. Credeva che fosse compito esclusivo della fantasia del lettore dare una forma, un’immagine personale alle parole dell’autore a seconda dell’umore e delle circostanze».
Suo padre si divertiva a scrivere?
«Amava scrivere ma odiava la celebrità e tutto ciò che essa comportava».
Suo padre la portava al cinema?
«Sì, spesso, anche quando eravamo lontani da casa. Ricordo di aver visto Dove osano le aquile in un cinema di Montreal, una sera in cui nevicava fortissimo, all’inizio degli anni ’70; e Il Grinta a Londra un paio di anni prima. Sui titoli sceglievo io, spesso mi portava a vedere film che lo annoiavano visibilmente solo perché lo volevo io. Ma dopo era un critico severo, e condivideva le sue riflessioni sui film in macchina tornando a casa».
Lei è diventato un attore famoso, ma la passione per la recitazione è un vizio di famiglia…
«Mamma e papà avevano entrambi recitato da giovani. Salinger amava il cinema. Possedeva una collezione di 50 o 60 film in sedici millimetri che di solito guardavamo la sera nei fine settimana. Capitava anche che si unissero vicini e amici. Ci si sdraiava sui divani o sui cuscini sul pavimento del salotto con il proiettore da un lato della stanza e lo schermo che tiravamo giù sul muro dalla parte opposta. Scoprì con stupore che la distanza tra il muro e il proiettore era quella ideale per la messa a fuoco e per regolare alla perfezione il formato delle immagini, come se quella stanza fosse stata progettata apposta. Oggi, tante case di lusso sono dotate di “sale di proiezione”, con tv giganti e impianti sonori sofisticati, la nostra era invece una rudimentale attrezzatura da primi anni ’70. Il gusto cinematografico di mio padre era vasto ed eclettico come quello per i libri: dai Trentanove scalini [amato dalla Phoebe del Giovane Holden] e Il prigioniero di Amsterdam a Dersu Uzala, a Oliver!, a Una notte all’opera, ad Amanti perduti, per elencare solo pochi titoli. Erano “vecchi amici” quanto lo erano i libri sulle mensole, li sentiva vicini come – se non di più – sentiva vicini i “veri” amici con cui talvolta ci trovavamo a guardarli».