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 2019  maggio 11 Sabato calendario

Intervista a Alessandro Portelli, laziale e comunista

Alessandro Portelli, classe 1942, è stato docente di letteratura angloamericana alla Sapienza. Ha scritto molti libri. Uno, fondamentale, sul massacro delle Ardeatine (“L’ordine è già stato eseguito”, ed. Donzelli). È considerato uno dei massimi esperti nel campo dei folksinger americani, da Woody Guthrie e Aunt Molly Jackson a Bob Dylan e Bruce Springsteen. Qui è intervistato in quanto dichiaratamente laziale e di sinistra.
Laziale da quando?
«Dal 1949, allo stadio Torino, che poi diventò Flaminio. Mi ci portò mio padre, che nelle giovanili della Lazio aveva giocato. La partita era Lazio-Juve, 3-1 per loro. Nel derby capitava spesso di sedere a fianco dei romanisti e di discutere. Era rigore. Macché, s’è buttato. Poteva volare qualche pugno, niente di più. E a volte si andava allo stadio tutti in famiglia, anche madri, sorelle, zie. Rimpiango i tempi in cui non esisteva il tifo organizzato. Al quale, per correttezza, andrebbe aggiunto un aggettivo: organizzato militarmente».
Continua a frequentare lo stadio?
«Saltuariamente, ma non per volontà mia. Una volta sapevi quando si giocavano le partite, io mi regolavo su un calendarietto di plastica che mi dava il barbiere. Oggi non esiste certezza della data: venerdì o sabato, domenica o lunedì? Prima, andavo con mio figlio Matteo nei Distinti e quando si sono fascistizzati e il clima era divenuto invivibile ci siamo spostati in tribuna Tevere. Spesso rimproveravo, pacatamente, il tifoso che faceva buu ai giocatori di colore. Matteo già a 13 anni reagiva duramente ascoltando certi cori. Ma anche prima aveva fatto la sua scelta. A 6 anni è tornato da scuola dicendo: quasi nessuno in classe è laziale, ma a due ho già fatto cambiare idea».
Giusto per datare, comunista da quando?
«Metà degli Anni 60 : il Vietnam, l’assassinio di Paolo Rossi».
Come vive questa situazione? Parlo della manifestazione in piazzale Loreto, dei cori contro Bakayoko e Kessié, ma anche di una militanza a destra non recentissima del tifo laziale.
«La vivo male, come tanti compagni laziali, Marino Sinibaldi ad esempio, che si sentono invisibili. Ci manca una voce collettiva. Con la giunta Veltroni ero consigliere per la memoria. Dopo duri scontri tra tifosi della Lazio e del Livorno, con Silvio Di Francia mandammo un messaggio sul web: laziali antifascisti, fatevi sentire. In due ore arrivarono più di 300 risposte. Ricordo che con Sandro Curzi andammo da Lotito. Che non capì cosa volevamo. Ci mostrò il plastico di uno stadio da costruire non ricordo dove. Continuava a ripetere: la politica non deve entrare negli stadi. A parte che c’era già entrata, dicevamo noi, sono i cori fascisti e razzisti che non devono entrare».
Deluso da Lotito?
«No, bisogna dargli atto di aver fatto il possibile contro gli Irriducibili, colpendoli negli incassi, nei quattrini. Perché il tifo organizzato è anche business. Ho letto che dopo le recenti esibizioni milanesi la Lazio si considera parte lesa. Allora sì, m’aspetto che faccia qualcosa.
Vorrei aggiungere, da osservatore e non da tifoso, che non solo alla Lazio c’è una fetta di tifosi fascisti. Ricordo un derby in cui la nostra curva aveva uno striscione che inneggiava ad Auschwitz e quella curva romanista uno che diceva Toaff boia. Toaff era il rabbino di Roma. Dove sono finite le curve di sinistra, la Brigate rossonere, i Boys romanisti? Tutto o quasi il tifo organizzato s’è spostato all’estrema destra. La sinistra ha responsabilità precise: non ha capito che negli stadi si stava giocando qualcosa d’importante. In una prima fase s’è disinteressata, poi non ha approfondito il problema, l’ha sottovalutato».
Come si diventa laziali?
«Nel mio caso, l’ho detto, per imprinting paterno, a sua volta trasmesso. Ho solo laziali in famiglia. Allo stesso modo, un ragazzino può scegliere la Lazio perché suo padre è romanista. O viceversa. Dipende anche dai periodi storici: negli Anni 20 e 30 tutta la zona di Ponte Milvio era antifascista perché il federale era romanista. Nel mio caso è stata anche una scelta sentimentale, tra David e Golia. Golia erano gli squadroni del nord, Juve in primis. Tifare Lazio comportava un certo masochismo, perché adesso gode di buona salute ma negli Anni 60 era in altalena tra A e B. Ma per me non era un problema: mi sono sempre identificato più con i perdenti che con i vincenti. Non rinnego la scelta di 70 anni fa, anzi».
Nella storia della Lazio, chi è rimasto nel suo cuore tifoso?
«Il primo è stato Muccinelli, un’aletta minuscola. Poi Morrone. Adesso, Ciro Immobile. Più molti che come David batterono Golia, grazie alla bravura e all’umanità di Tommaso Maestrelli: Frustalupi, Guarnaschelli, Giordano, D’Amico, Re Cecconi. Vorrei ricordare Montesi, centrocampista di fatica: era di Lotta continua e sparì presto dal calcio professionistico. E anche Oddi, che giocava in una squadra molto orientata a destra, ma veniva alle feste dell’Unità al Tufello. Infine Gascoigne, per il profondo dispiacere che mi ha dato la sua parabola triste».
Altro da aggiungere sul tema del tifo di estrema destra?
«Sì, tre cose. Non credo a quelli che dicono che c’è questo tifo negli stadi perché c’è nella società. Questo tifo ha mosso i primi passi ed è cresciuto negli stadi perché in una città erano la sola zona franca. E una volta cresciuto è andato nelle piazze e nelle strade. Non credo a quelli che dicono: ma cosa pretendete da loro, sono ignoranti. No, dico io, è gente che sa benissimo da che parte vuole stare. Ricordo un derby in cui la curva laziale era osservata speciale. Mostrò una sola bandiera, quella sudista, della confederazione schiavista. E nessuno la rimosse. Infine, mi par di notare una certa indulgenza, forse l’antifascismo non fa più parte del senso comune. Se poi penso a chi siede al Viminale, non credo che la deriva fascista, nazista e razzista gli interessi più di tanto».