la Repubblica, 11 maggio 2019
L’ultima panchina di Velasco
Era un’altra pallavolo prima, poi per 44 anni c’è stato Julio Velasco. Ma tutto scorre, come sa bene l’allenatore argentino che ha studiato Eraclito. A 67 anni il maestro, guru, filosofo, manager e psicologo che rifiuterebbe ciascuna di queste definizioni, lascia il campo. Non solo la panchina di quella Modena dei suoi 4 tricolori di fila negli Anni 80 (’86-’89) dove era tornato ad allenare la stagione scorsa vincendo la Supercoppa italiana e poi solo l’illusione delle semifinali scudetto giocate e perse alla quinta partita contro Perugia. Lascia la pallavolo che ci ha fatto ballare. In Italia e ovunque sia stato: Spagna, Repubblica Ceca, Iran e nella sua Argentina. «Sono rimasto in silenzio fino a ora e lo farò ancora per un po’, a parte questo scritto, perché per me è una situazione emotiva molto forte e ho bisogno di stare un po’ con me stesso». Ha aspettato 24 ore prima di parlare, il coach più letterario che c’è. Poi lo ha fatto scrivendo un memoriale non di motivazioni, ma di ricordi e grazie, dopo che il club emiliano aveva dato l’annuncio del suo addio: «La decisione presa da Julio Velasco di chiudere la propria carriera da allenatore va accettata, come si accetta ciò che viene deciso da una persona che ha dimostrato, in ogni circostanza, enorme correttezza, professionalità, e passione» recitava la nota tra le cui righe si percepisce lo stile di una presidente appassionata come Catia Pedrini, che solo pochi giorni fa dava per certa la prosecuzione di un rapporto che si è invece interrotto con un anno di anticipo rispetto al previsto. «Velasco ha fatto la storia di Modena.
Semplicemente grazie». È sempre complicato ricominciare, specie se sei stato il più bravo, specie dove tutto è iniziato. È sempre complicato lasciare, ma non se ti chiami Julio Velasco. L’allenatore che ha sempre insegnato: ruoli, schemi, idee, soluzioni. E anche come preparare la valigia. «Questo momento per me non è semplice, ma come molti giocatori hanno smesso di giocare quando ancora erano forti, anch’io ho voluto chiudere la mia carriera quando ancora avrei potuto allenare, senza aspettare il declino».
Forse qualche ombra l’aveva vista affacciarsi all’orizzonte quest’anno e se c’è una cosa che non ama, Velasco, è il crepuscolo. «I vincenti trovano soluzioni. I perdenti cercano alibi» è uno dei Velasco dixit ripetuti fino a nausearlo. Fino a eleggerlo a mistico dello sport, calcio compreso dove è passato da dirigente nella Lazio e nell’Inter. In Italia dove ha casa, passaporto, fatto nascere e crescere le sue tre figlie e dove è diventato nonno, è stato il Guardiola sottorete. Il ct di due Mondiali (1990 e 1994), tre Europei (1989, 1993, 1995), una Coppa del mondo, 5 World League e soprattutto di quell’argento olimpico nel ’96 ad Atlanta che ancora rimane acciaio nella carne di tanti: l’oro perduto al tie-break per un punto (17-16) contro l’Olanda. Per togliersela di dosso, la malinconia di quella notte, Andrea Zorzi detto Zorro ci ha scritto un’opera teatrale (La leggenda del pallavolista volante). Velasco no, non ha mai rimpianto e rimuginato. Per carattere, mentalità, spirito e anche perché, se ti hanno sequestrato e torturato un fratello per 40 giorni, come successe al suo Luis durante il golpe militare in Argentina, tutto il resto riprende il giusto peso. Zorzi, Lucchetta, Bernardi, Gardini, Cantagalli, Tofoli. È un mantra e recitata come tale la formazione di quella generazione di fenomeni.
«Voglio ringraziare specialmente tutti i giocatori che ho avuto e che mi hanno permesso di essere quello che sono diventato. Perché un allenatore non è altro che la propria squadra. Tutto quello che un allenatore fa è aiutare i propri giocatori in modo che siano loro a fare. In questo momento mi ricordo di ognuno di loro. Non solo di quelli più forti. Perché molte volte un allenatore impara di più insegnando ai quei giocatori a cui le cose non vengono facilmente». Ciao maestro.