la Repubblica, 11 maggio 2019
I miei vicini di casa rom
Nell’appartamento di fronte al mio, da più di dieci anni, abita una famiglia rom. Ci incontriamo ogni giorno sul pianerottolo e ci salutiamo, come si fa tra vicini di casa. «Il censimento dei rom», annunciato di nuovo in tv dal ministro dell’Interno, potrebbe incominciare anche da qui. I miei dirimpettai sono rom romeni: sei persone – padre, madre, due figli, la moglie del maggiore e la loro bambina nata da poco – ma nei primi anni insieme a loro viveva anche un’altra famiglia, e non si capiva bene quanti fossero.
Qualcuno scriveva all’amministratore per protestare. L’appartamento è all’ultimo piano di una casa di ringhiera di Milano, in uno di quei quartieri del centro dove fino a poco tempo fa c’erano mercerie, gommisti e macellai e che oggi si sono riempiti di poke restaurant e street bar specializzati in tacos di avocado. Dopo gli insulti e le minacce alle donne e ai bambini di Casal Bruciato a Roma, ho suonato alla loro porta. Mi ha aperto il padre, sembrava sorpreso. «Sono un muratore», mi ha detto, «ho lavorato anche in regola per un po’».
Sono arrivati in Italia dalla Romania nel 2000 e hanno vissuto dove capitava, anche nei campi quando i bambini erano piccoli, poi per fortuna hanno trovato la casa. «Siamo persone che si comportano bene, non diamo fastidio», mi dice. Prima del loro arrivo nell’appartamento abitava una famiglia siciliana. Erano tutti molto gentili, ma il padre non si vedeva quasi mai. In cortile si diceva che fosse in galera. Una mattina li abbiamo visti andare via e per qualche anno l’appartamento è rimasto disabitato. In seguito si sarebbe saputo che era stato confiscato per mafia e dato in gestione alla Casa di Carità. Il vicino sorride.
In effetti di problemi non ce ne sono mai stati, o almeno non diversi da quelli che si possono creare tra condomini: qualche raccolta differenziata sbagliata, l’odore del cibo, esagerate montagne di panni stesi sul balcone. Però, nei primi anni, tra i condomini qualche mugugno c’è stato. Qualcuno ha detto, e tutti hanno pensato, che le case si sarebbero deprezzate e che sarebbe stato più difficile venderle.
«La maggior parte di noi rom», mi dice, «vive in una casa, anche se non sono case dove c’è tutto. Quando sento quello che dicono in tv su di noi penso che non sono cose belle da dire delle persone. Siamo un popolo che ha sofferto molto, anche durante il nazismo. Per chi fa qualcosa di male ci sono già le leggi, ci sono i giudici e le prigioni, ma per tutti gli altri c’è bisogno di una strada». Per il ministro dell’Interno, invece, i campi vanno rasi al suolo con la ruspa e le case bisogna darle agli italiani. In mancanza di soluzioni, parziali o finali, viene da pensare che voglia lasciare tutto com’è. In Italia – calcolano Istat, Anci e Associazione 21 luglio – vivono dalle 110 ai 170 mila persone rom, sinti o caminanti. È lo 0,25 per cento della popolazione, la percentuale più bassa d’Europa, contro lo 0,62 della Francia, l’1,63 della Spagna o il 7,49 dell’Ungheria. Invece, nella percezione, i rom sono ovunque. La metà sono italiani.
Soltanto 30 mila – quindi 5/6 mila famiglie – vivono nei campi. Significa che per risolvere il problema basterebbero 5 mila appartamenti (quelli vuoti in Italia sono 8 milioni), se soltanto li si volesse cercare. E non dovrebbero essere soltanto in periferia, perché non è giusto che siano sempre e solo i poveri a farsi carico dei poveri. Dovrebbe essere una proposta della sinistra, anche se non è sicuro che i ricchi, neppure quelli progressisti, sarebbero più propensi ad accoglierli.
Ho chiesto al mio vicino se potevo parlare con suo figlio minore e lui lo ha chiamato sul pianerottolo. Quando è arrivato aveva sei anni, ora ne ha sedici. È nato in Italia. A scuola va molto bene, e infatti alla madre, quando te lo racconta, si illuminano gli occhi. Fa il quarto anno in un istituto tecnico commerciale e dopo la maturità è indeciso se iscriversi a Marketing ed Economia oppure a Legge. Gli ho chiesto come va con i suoi compagni di classe: «Benissimo», mi ha risposto, come se fosse la cosa più ovvia del mondo, «ho tanti amici, ma non ho detto a nessuno di essere rom». «Non ti pesa non dire chi sei». Il ragazzo ha alzato le spalle, il padre è intervenuto: «È meglio così, preferisco, è più sicuro, non si sa mai quello che può succedere».
Chiedo al ragazzo se posso citare il suo nome. Mi dice di no: «Quello che succede è brutto, la gente ha paura». È chiaro che non si sente rom. Che non è più rom. Non chiederà mai l’elemosina e non ruberà. Mi racconta che la musica tradizionale dei suoi non gli piace: «Io ascolto il rap, Sferaebbasta, Izi, Tedua, quelli che piacciono a tutti».
Qualche volta, però, quando danno una festa, attraverso i muri sento suonare il violino e la fisarmonica. Ogni tanto, di notte, la bambina piange, come tutti i bambini.
(L’autore dell’articolo è uno scrittore nato a Milano 51 anni fa. Il suo ultimo libro, uscito per Feltrinelli nel 2019, è “Il censimento dei radical chic”)