Corriere della Sera, 11 maggio 2019
Nel Padiglione Italia
«Come nell’Orlando Furioso raccontato da Italo Calvino, il visitatore del Padiglione Italia è un cavaliere che attraversa un labirinto per scoprire un mondo ribaltato, visto all’incontrario». Lo racconta il curatore Milovan Farronato, perfetta figura del Critico come artista di Oscar Wilde: più dei tre in mostra (Enrico David, Liliana Moro e la scomparsa Chiara Fumai), l’artista è lui, con la sua ambigua e seducente figura, con i suoi accessori e vestiti barocchi. Ieri ha accolto il ministro dei Beni culturali, Alberto Bonisoli, con la scritta «Cassandra» sulla giacca in tweed sfidando – lui, così attento all’occulto – il timore di sventure. Formale, educatissimo e un po’ commosso, Farronato vive lui stesso un capovolgimento allo specchio visto che dieci anni fa organizzò a Ca’ Pesaro la mostra Non Voltarti Adesso/Don’t Look Now contro il Padiglione Italia di Luca Beatrice e Beatrice Buscaroli definito «passatista» e ieri, invece, è stato celebrato dall’istituzione committente di tutti i Padiglioni Italia, ovvero la Direzione generale Arte e Architettura contemporanee e Periferie urbane diretta dall’architetto Federica Galloni. Si è preso anche i complimenti del ministro, «uscito dal labirinto con un po’ di ansia, come proprio della nostra società in trasformazione» e quelli del sindaco Luigi Brugnaro, molto ironico su questo mondo di intellettuali e creativi ma pronto a riconoscere che «l’Arte deve esprimersi liberamente».
«Racconto le storie dei tre artisti che abbiamo scelto, racconto il mondo umbratile di Enrico David opposto a quello pieno di energia di Liliana Moro tenuti insieme dal racconto cripto-alchemico disposto lungo le pareti di Chiara Fumai. Non metto in mostra me stesso; anzi, tante collocazioni sono state pensate insieme a Enrico e Liliana».
Farronato è il creatore del labirinto, Fumai è la Sibilla cumana nella grotta: senti la sua voce e osservi i suoi incomprensibili enigmi impressi sui muri, ma è scomparsa nel 2017 a 39 anni. Gli altri due abitano il labirinto che il visitatore Teseo-Orlando attraversa. Il labirinto è come Venezia, come una città medievale che ti sorprende a ogni angolo: le opere sono dietro uno spigolo, nelle teche, appese al soffitto... Nel Padiglione del 2017 fu la magica vasca d’acqua di Giorgio Andreotta Calò a rendere stupefacente il rapporto tra il Padiglione Italia e Venezia: oggi il labirinto. Ai piedi dei muri di questo Padiglione grande come il ventre di una balena si affacciano, timorose, anche microscopiche conchiglie: sembrano supplicarci.
«A Liliana ho chiesto un percorso pluriviario, che rappresentasse la sua eterogeneità nei materiali, nelle tecniche e nelle visioni. Da Enrico, che è onnivoro, volevo l’eccesso. Ne è uscita un’esperienza duttile. Esistono più mostre una dentro l’altra. Il titolo Né altra né questa è per dire che ci può essere una terza strada. Magari, quando stai per naufragare, trovi un dialogo». L’allestimento è denso di rimandi alle opere esposte, ma si chiederebbe troppo all’esausto visitatore giunto sin qui se si pensa che possano essere colti.
Di sottofondo
«Bella ciao» trasmessa in 15 lingue. Bonisoli: «Mia moglie la fischietta sempre»
Usciamo dalle metafore e veniamo a quelle «cose con accrescimento estetico» (Gadamer) che sono le opere d’arte. «Ci sono opere sia vecchie che nuove, niente video», per scelta. «Fumai sarebbe stata la più giovane – prosegue Farronato —. La sua opera qui è sia frammentata nel racconto lungo le pareti del labirinto che, nel complesso, ricomposta. L’aveva in parte preparata per una mostra ad Atene nel 2014 in concomitanza con Documenta, conclusa nel 2017 e mai esposta. Il suo è un linguaggio che guarda all’ermetismo e all’occultismo, che si conclude con la frase questo non può essere tradotta». C’è qualcosa di alchemico nell’alfabeto di Chiara Fumai, ma anche nelle statue mute, straziate, spiattellate di David – talvolta specchianti, altre volte sistemate su dechirichiani appoggi riprodotti nelle arcate del labirinto (allestimento Studio Julia, grafico Valerio Lucente). Ma ciò che resterà nel ricordo di questo Padiglione credo sia l’allegro bar con ombrelloni allestito da Liliana Moro, ove si trasmette ininterrottamente Bella ciao (con ritornello in 15 lingue). Che effetto le fa, signor ministro, il motivetto? «Mi ricorda il 25 Aprile; mia moglie lo fischietta sempre».
Bene, superato dal ministro il test dell’antifascismo sottopostogli dai giornalisti, così di moda in questi giorni, Farronato non schiva politica e società: «Moro è un’artista di resistenza, una seguace di Fabro; David ha un richiamo alla Resistenza e viene dalla Transavanguardia, Fumai li tiene insieme». Ma poi, apri un portone lungo il labirinto e dietro vi trovi un’opera di Chiara Fumai «che, pensando all’ultima performance di Vito Acconci – racconta Farronato – “vorrebbe solleticarlo con un frustino” come in Venere in pelliccia» .
Riecco l’ambiguità che è la vera identità di Farronato, nato nel 1973 in un paesino vicino a Piacenza, direttore del Fiorucci Art Trust, curatore a Londra, figura che oggi si direbbe iconica e mediatica. «Ma non mi piace parlare di me – afferma – disturba il lavoro. Resto nelle norme, con libertà. Non ci tengo a parlare di gender e non l’ho mai fatto con le scelte artistiche. Certo, sono favorevole a un mondo fluido, ma mi occupo di arte e voglio testimoniarlo attraverso quella, anche attraverso il labirinto».