Corriere della Sera, 10 maggio 2019
Ritratto della Lituania
«Vi chiamano troll…». «Ci chiamano… Chi è che ci chiama così?». Il blogger Laurynas Ragelskis arriva in camicia mimetica accompagnato da tre amici: un ventiseienne «marxista» che traduce per lui dal lituano all’inglese, un blogger più anziano che di lavoro fa l’operatore sanitario in ospedale, e il gestore del canale YouTube PressJazz Tv, che vende borse da donna al mercato. È nella sede di questo sito pro-russo, vicino alla stazione di Vilnius, che ci incontriamo, tra telecamere appoggiate su cavalletti e pareti dipinte di verde per potervi sovra-imporre qualunque immagine digitalmente. Ragelskis vuole riprendere l’intervista. «Che sfondo preferisci?» Suggeriamo il Cremlino.
Nel gergo di internet, i troll sono soggetti che interagiscono con gli altri con messaggi provocatori e fuori tema, al fine di disturbare la comunicazione e irritare gli animi. In Lituania sono definiti troll anche i sostenitori della Russia che usano gli stessi metodi per fare propaganda contro la Nato, l’Unione europea, l’America e la direzione occidentale del loro governo, mentre esprimono nostalgia per l’Unione Sovietica. «Quando i rappresentanti della propaganda ufficiale usano questi epiteti rivelano d’essere incapaci di affrontare un vero dibattito», replica con fastidio Ragelskis. «È come se dicessero che sono una ballerina. Non significa niente». Programmatore, padre di 4 figli, nega di prendere soldi da Mosca, racconta che la polizia gli ha sequestrato il computer per aver accusato una parlamentare di traffico di bambini lituani all’estero. L’interprete marxista prende le distanze da alcune sue idee «eccentriche», come quando si definisce «pagano, musulmano e comunista». Ma i quattro amici sono d’accordo su una cosa, e cioè che la loro nazione di meno di 3 milioni di abitanti vada difesa dal capitalismo e dal declino che lo accompagna: emigrazione, nascite in calo... «Noi siamo i veri patrioti».
Gli elfiLa Guerra Fredda in Lituania non è mai finita: oggi è soprattutto una guerra di informazione. «Mi chiamo Ricardas Savukynas e sono un elfo», ci dice un occhialuto consulente finanziario di mezza età. Poi fa le corna con le mani: «We rock!». Medici, commercialisti, informatici… hanno formato un movimento nel 2014, all’inizio della guerra in Ucraina. «Abbiamo visto la Russia usare Facebook e il web come armi: prima fake news simili a quelle che girano in Lituania, poi diffondevano l’odio sostenendo che i soldati di Kiev uccidevano i bambini nel Donbass. Molti ucraini ci hanno creduto e hanno cominciato ad appoggiare l’invasione russa contro il loro stesso Paese. Noi temevamo che il Cremlino stesse preparando una guerra anche in Lituania. Così abbiamo iniziato a combattere. E siccome affrontiamo i troll, qualcuno di noi ha detto: allora siamo elfi!».
Facebook è la principale linea del fronte, spiega Hawk, il Falco, nome in codice di uno degli elfi più attivi. Oggi sono forse 5.000. Passano ore online, segnalano in massa le fake news all’azienda di Zuckerberg che è diventata più attiva nel bloccarli (per settimane o mesi). Il Falco registra i «troll uccisi» e quando torneranno attivi, ha lanciato campagne social come #StopAdidas riuscendo a far ritirare dal mercato la maglia con la scritta «USSR» dopo averla accostata a immagini di gulag e simboli nazisti. Gli elfi collaborano anche con i giornalisti e con lo Stato, per esempio attraverso la piattaforma debunk.eu che usa l’intelligenza artificiale per monitorare 2000 siti russi. Ma il Cremlino non è rimasto a guardare, raccontano gli elfi: un loro gruppo Facebook è stato penetrato dal nemico, che ha pubblicato i veri nomi di centinaia di membri. Ma anziché farsi intimidire, molti altri si sono uniti al movimento. Solo che alcuni elfi hanno scelto la vendetta, rivelando a loro volta l’identità dei troll. Un errore: «Decidere chi è un troll, rivelare i dati personali… sono questioni delicate», spiega il Falco. «Noi difendiamo la libertà di espressione, non la dobbiamo negare agli altri. Quel che combattiamo è l’uso delle menzogne come strumento di aggressione».
I lituani si considerano gli italiani dei Baltici (in comune abbiamo il barocco, il cattolicesimo, l’emotività), ma solo nel XX secolo questo Paese è stato molte cose: parte dell’Impero russo, indipendente per 22 anni, occupato dai sovietici per un anno, poi dai nazisti, di nuovo dai sovietici per 50 anni e indipendente dal 1991. «Il regime sovietico e quello nazista erano simili: hanno ucciso centinaia di migliaia di persone», spiega l’elfo Savukynas. Il fratello di sua nonna fu ucciso insieme ai figli, la moglie stuprata e ammazzata. Gli assassini si travestirono da «fratelli della foresta», la resistenza anti-sovietica, per far ricadere su di loro la colpa, ma erano del KGB. Ecco perché a Savukynas sta così a cuore svelare le fake news.
Giornata dell’EuropaIl 1° maggio a Vilnius si festeggia il 15° anniversario dell’ingresso nell’Ue, nel giorno in cui i lavoratori erano costretti a partecipare ai cortei sotto l’Unione Sovietica. Un’enorme bandiera europea sventola al centro di piazza Lukiškes, dove la statua di Lenin è stata abbattuta nel 1991. Sulla facciata dell’ex quartier generale del KGB (per un periodo della Gestapo) sono iscritti nella pietra i nomi di chi fu ucciso all’interno. Ci sono due modi di vedere l’Ue: uno è quello della Brexit e dei sovranisti, che credono che limiti la loro identità nazionale; l’altro è quello della Lituania e altri Paesi dell’ex Urss, che vedono l’Unione europea e la Nato come baluardi che «assicurano l’esistenza del nostro Paese come tale», spiega il ministro della Difesa Raimundas Karoblis. Nessuno s’è trovato al centro della guerra di informazione quanto Karoblis. Hacker russi hanno violato il sito di una tv lituana per scrivere che avrebbe ammesso d’essere gay e accusato di molestie sessuali (e hanno spedito l’articolo con un virus alla presidente e alla stampa); gli hanno messo in bocca su YouTube il riconoscimento della Crimea come parte della Russia; hanno annunciato il suo arresto per mazzette ricevute dagli Usa. «Sì, siamo in guerra, una vera guerra, se consideriamo le minacce cibernetiche... Ma viviamo in tempo di pace, quindi la situazione è complicata. Siamo un Paese democratico, dobbiamo agire nei limiti delle leggi».
Le leggi più spesso usate per bloccare le fake news sono quelle contro l’istigazione all’odio; una dozzina di canali tv russi sono stati sospesi per periodi di 2-6 mesi. Da poco è nata una commissione che può chiudere un canale per 72 ore al fine di condurre un’inchiesta da presentare in tribunale. Il sergente Tomas Ceponis, analista di un’unità di 30 persone delle Forze Armate che combatte la disinformazione, spiega che è una misura presa alla vigilia delle elezioni nel timore che siano influenzate da «forze ostili». Ma non sempre è possibile usare le leggi. La piccola PressJazz Tv, con i suoi 5.000 followers al giorno, per esempio, «raramente supera la linea rossa. Ogni tanto ci chiediamo se dobbiamo preoccuparci. Non sono particolarmente popolari o visibili, ma in Ucraina 300 o 3.000 persone sono bastate a conquistare una città». Ceponis prende sul serio anche la propaganda apparentemente più inoffensiva. Un esempio: il gelato sovietico, ricordato con nostalgia sui social per via degli ingredienti naturali (stabiliti per legge) rispetto ai dolciumi artificiali che riempiono oggi i supermercati. «Il gelato sovietico è una bugia: fu importato dagli Stati Uniti prima della rivoluzione bolscevica», dice Ceponis. «Ma serve un gelato freddo per una vera Guerra Fredda».
L’idea di coinvolgere i militari nella lotta alla disinformazione può suonare inquietante in Italia, ma al governo di Vilnius pare una necessità. Dopo l’annessione russa della Crimea, il ministero della Difesa lituano ha pubblicato un manuale di sopravvivenza: 86 pagine di istruzioni pratiche, da come rifugiarsi nelle foreste a come filtrare l’acqua, in caso di occupazione. Dal 2014, la spesa per la Difesa è triplicata, dallo 0,77% del Pil al 2%. L’esercitazione militare russa Zapad (Occidente) nel 2017, la più grande dopo la Guerra Fredda, o i jet che volano nell’enclave di Kaliningrad senza identificarsi mantengono alta l’allerta, ma si presta pari attenzione alle minacce «invisibili». «Immagina, quando senti un messaggio alla radio, sui social, al cinema, che qualcuno stia cercando di influenzare la tua società, cambiare il modo di sentire e di agire dei cittadini. Nella guerra convenzionale i soldati possono essere uccisi. Nella guerra d’informazione vengono convinti a combattere per il nemico. Non solo perdi un uomo, l’avversario ne guadagna uno in più».
Resilienza«Atsparumas», resilienza: qui è la filosofia nazionale. Una volta l’Ue considerava i lituani un po’ paranoici. «Ora è chiaro a tutti che l’obiettivo di Mosca non è la Lituania, ma la democrazia occidentale», spiega Eitvydas Bajarunas, ambasciatore per le minacce ibride. «Gli Stati Uniti sono molto preoccupati per la propaganda russa nei Baltici», conferma la funzionaria dell’ambasciata Usa Heather Steil. La Russia fa perno su spaccature sociali: qui, poiché l’83% della popolazione si considera etnicamente lituano, pesano di più le differenze di classe. Questo è uno dei primi Paesi al mondo per velocità della Rete, ma tra gli ultimi per il gap tra ricchi e poveri: Vilnius cresce, ma paesini come Tyluliai, disabitati, vengono rimossi dal registro dei Comuni. Bisogna addentrarsi nelle foreste per trovare la statua di Lenin rimossa da piazza Lukiškes. Riposa con decine di compagne in un parco creato da un miliardario. I bambini giocano tra i simboli sovietici illegali fuori dai musei. Il giovane Dmytro Lavrenchuk fuma su una panchina: è un ex soldato ucraino, ha ferite visibili sul collo. Questo posto non lo convince affatto: la critica dell’Urss è troppo sottile. E la nostalgia del passato è un’arma potente.