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 2019  maggio 10 Venerdì calendario

Dalle banche all’Alitalia, salvataggi da 30 miliardi

I salvataggi delle banche, i soldi necessari per tenere in vita l’Ilva nella traversata tra i Riva e Arcelor Mittal, i denari sversati nel pozzo nero di Alitalia, quelli persi dalla Cdp nella battaglia per la gestione di Telecom Italia, quelli, ancora imprecisati, necessari per mettere insieme le forze residue delle agonizzanti aziende italiane delle costruzioni. Milione più milione meno, fanno 30 miliardi di soldi pubblici negli ultimi cinque-sei anni. Cioè il costo dell’intervento dello Stato in economia, non con gli strumenti tipici della politica economica e industriale – gli sgravi fiscali, gli incentivi, gli investimenti pubblici – ma con l’armamentario più spiccio dell’acquisto di azioni, della sottoscrizione di aumenti di capitale, delle garanzie a fondo più o meno perduto.Le voci sono eterogenee: ci sono i salvataggi necessari per tutelare gli interessi dei correntisti delle banche e quelli indispensabili per scongiurare la chiusura di aziende, e di conseguenza la polverizzazione di migliaia di posti di lavoro. Ci sono le operazioni da Stato padrone, quelle travestite con l’abito più presentabile delle strategie industriali così come gli ostinati tentativi di tenere alta la bandiera di una compagnia decotta. Ma trattandosi di soldi degli italiani, in una stagione in cui lo Stato vive in deficit, vale la pena di tentare un consuntivo, anche sommario.
Il grosso di quei 30 miliardi – 24,8 per la precisione – è il costo dei salvataggi delle banche. Che, diversamente dagli slogan della propaganda populista, non sono “regali” alle banche, tanto meno ai banchieri. Ma la spesa necessaria (e comunque «di modesta entità se confrontata con quanto accaduto nel resto d’Europa», come sostiene l’Osservatorio Cpi della Cattolica) per tutelare depositanti e piccoli risparmiatori degli istituti di credito in crisi. Come si arriva al totale di quasi 25 miliardi? Circa 650 milioni sono i soldi investiti da Cassa depositi e prestiti e Poste nel fondo Atlante 1, istituito con le Fondazioni e alcuni dei maggiori istituti di credito per intervenire a sostegno delle banche in crisi; 4,8 miliardi sono finiti a Intesa Sanpaolo per ilfabbisogno di capitale e la ristrutturazione di Popolare Vicenza e Veneto Banca; 15 miliardi è il valore medio degli investimenti nel fondo Atlante 2 e delle garanzie per il risanamento delle banche venete; circa 4,4 miliardi è la minusvalenza potenziale sull’investimento in Montepaschi, di cui il Tesoro controlla il 68 per cento. Va detto che, dei 25 miliardi stanziati, circa 8 – secondo l’Osservatorio Cpi – sono teoricamente recuperabili.
Ci sono poi le partite “industriali”: l’Ilva, prima commissariata, poi sottoposta ad amministrazione straordinaria fino al decreto di vendita e alla presa di possesso da parte della cordata guidata da Arcelor Mittal, è rimasta sei anni senza padrone. In questo lasso di tempo l’azienda è costata almeno 3,6 miliardi tra perdite e spese per la gestione. Su Alitalia il consuntivo ammonterebbe a parecchi miliardi di euro – Il Sole 24 Ore ha calcolato 8,7 miliardi, pari a 145 euro per ogni cittadino, dal 1974 a oggi – ma conviene limitarsi agli ultimi anni e ai 900 milioni di prestito ponte che il governo Gentiloni ha concesso e che la compagnia aerea sta bruciando giorno dopo giorno.Con l’aggiunta degli interessi non rimborsati, fa un miliardo tondo.
Infine bisogna conteggiare le minusvalenze della Cdp (all’82,77 per cento del Mef) sul 9,89 per cento del capitale Telecom acquisito nell’ultimo anno per piegare la battaglia tra i due grandi soci, Vivendi ed Elliott, a favore del secondo. Quasi un milione e mezzo di azioni che ai valori di questi giorni, sotto i 50 centesimi, fruttano alla Cdp una perdita potenziale di circa 300 milioni sul miliardo investito.
Avrebbe potuto andar peggio: da quando il governo Lega-M5S è in sella la parola “nazionalizzazione” viene spesa con una disinvoltura senza precedenti recenti. Di nazionalizzazione si è parlato all’indomani del crollo del ponte Morandi di Genova, in riferimento alle concessioni autostradali. Di nazionalizzazione si è parlato a lungo a proposito dell’Ilva, prima che Luigi Di Maio si arrendesse all’inevitabilità della soluzione Arcelor Mittal. Ma potrebbe ancora andar peggio: gli unici punti fermi della cordata che Di Maio prova da mesi a mettere in piedi per Alitalia sono l’intervento diretto del Tesoro (15 per cento) e quello (30 per cento) delle Fs, interamente controllate dallo Stato. Di intervento pubblico si parla a proposito del nascente polo delle costruzioni: dopo il salvataggio di Astaldi da parte del gruppo Salini-Impregilo, il passo successivo dovrebbe essere l’ingresso della Cdp per pilotare l’aggregazione di altre aziende del settore in crisi: Condotte (nella quale lo Stato ha già messo 60 milioni di prestito ponte), Grandi Lavori Fincosit, Trevi e Cmc. Di nazionalizzazione si torna a parlare, ormai apertamente, a proposito di banche, dopo la probabile uscita di scena del fondo BlackRock dalla partita Carige. Insomma, tra qualche mese il conto per le casse pubbliche andrà ricalcolato, e la prospettiva non è promettente.