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 2019  maggio 10 Venerdì calendario

Intervista a Gino Paoli

Fosse per lui, se ne starebbe sul divano come un gatto, a fissare il mare che ha dato colore ai suoi occhi. Ma c’è il richiamo del palco perciò Gino Paoli, 85 anni a settembre, capace di poesia che tocca ancora più a fondo perché spinta da modi apparentemente ruvidi, festeggia i 60 anni di carriera domenica all’Auditorium di Roma con la serata-evento Una Lunga storia, al traino del doppio disco Appunti di un lungo viaggio: i suoi successi rivisitati con i jazzisti Rita Marcotulli, Alfredo Golino, Ares Tavolazzi e la Roma Jazz String Orchestra, e Canzoni interrotte, nate con il pianista Danilo Rea e anticonvenzionali: «No a rime e ritornelli meccanici. Non scrivo per accontentare ma per esprimere emozioni».
Il jazz lo scoprì a 12 anni. Tutto torna?
«È un amore circolare. Davanti casa a Pegli c’erano i carrarmati americani, da loro sentii la tromba di Louis Armstrong. Avevo l’orto di guerra e scambiavo pomodori con dischi. Volevano darmi la cioccolata, preferii Billie Holiday».
La libertà passò per quei suoni?
«Dopo la Liberazione arrivò la cultura dal mondo, mi abbuffai di Steinbeck, Rimbaud, Sartre, musica. Influenzarono il mio modo di vivere. Mio padre mi voleva ingegnere, io mi sentivo pittore. Me ne andai vivendo da bohémien, senza una lira. Ma quando hai poco, lo dividi con tutti».
Intende con i ragazzi di via Prè?
«Io, Tenco, De Andrè, Lauzi. Nessuno pensava di fare il cantautore. Dai cantautori francesi capimmo che la canzone poteva esprimere inquietudine. Mi spiace che li abbiano mitizzati, togliendo la parte umana. Sono i miei amici fraterni, geniali e volte cretini, come tutti».
Vi accomunava la timidezza?
«Chi fa questo mestiere non riesce a esprimersi al di fuori dell’arte. De Andrè dovevamo spingerlo sul palco. Dalla incise il primo singolo al buio. Io mi nascondevo dietro il piano. Ma sono veramente io quando sto sul palco».
Se la spiega questa concentrazione di talenti negli Anni ’60?
«Gli artisti sono crocifissi al primo successo. Non si ricorda la loro opera più bella, ma quella che ha cambiato tutto. Io, ad esempio, resto quello di Senza fine».
Il suo editore non la voleva.
«Disse Gino va il rock n’ roll e tu mi porti un valzer?. La eseguirono in tutto il mondo. Era la canzone d’amore di Sinatra e Mia Farrow. Lei lo piantò e io la odiai perché lui non la volle più cantare».

C’è un’indicazione per il successo?
«No. Iniziai nel 1959 senza convinzione con una piccola canzone, La gatta, che uscì in 80 copie, funzionò grazie ai juke box. Me ne accorsi quando la canticchiò il postino in bici sotto la mia soffitta. Sassi la bocciarono perché era filosofica. Su Il cielo in una stanza mi dissero che dovevo cambiar mestiere. Per fortuna la cantò Mina».

Se Mina fosse direttrice artistica a Sanremo, accetterebbe di andare in gara?
«Penso di sì, dipende da come e perché mi invitano. Gli spazi non sono importanti, è il pubblico che ti sceglie».
Estate 1963: Sapore di sale è in classifica e lei tenta il suicidio. Perché?
«Né depressione né disperazione. Volevo vedere cosa c’era dall’altra parte. A 29 anni avevo tutto, pensavo di aver visto tutto. Lo feci con precisione, non mi riuscì, decisi: mi tocca vivere. Avrei perso la vita straordinaria che è seguita».
Tenco non imparò dal suo errore?
«Il suo suicidio me lo spiego solo se era impasticcato. Lo rifiutava come gesto. Quando mi sparai piangeva in ospedale Non si fa così».
A fine Anni ’60 lei si ritirò a fare l’oste.
«Era il periodo della canzone politica, anzi politichese, perché ogni mio punto di vista è politico. Viva e abbasso non mi riguardava. Da anarchico, rispondo a me stesso».
Ha tradito le sue donne ed è stato tradito. Ne è valsa la pena?
«Se non tradisci, è perché valuti il rischio. Alla mia tenera età ho capito che tanto le donne ti scoprono. Non ho pentimenti. Le cose brutte hanno concorso a fare la mia anima, parola che non mi piace».
Perché?
«Le parole esistenziali sono equivoche. Non so dire nemmeno Ti amo. Per mia moglie scrivo cose bellissime ma non so dirle. La retorica mi fa paura, mi aggiusto scrivendo».
La canzone d’amore che preferisce?
«La donna cannone di De Gregori».
Nell’ultimo disco canta Voglio morir malato. Una provocazione?
«È la mia versione di Vado al Massimo di Vasco. Ho sempre voluto provare tutto. Dovrei conservare il mio corpo per morire sano? La morte non mi spaventa, è una compagna. Ogni giorno che vivi, è un giorno in meno che vivi. La natura ci dice che tutto rinasce».

Come vorrebbe essere ricordato?
«Con la mia umanità, senza essere mitizzato. Descrivessero la testa di cazzo che sono stato».