il Fatto Quotidiano, 10 maggio 2019
Non tutti i ciccioni vengono per nuocere
Grasso è bello, oltre a essere il titolo di un noto musical di Broadway, era un pensiero diffuso nel Medioevo quando la rotondità del corpo era un segno di ricchezza, un elemento distintivo. Con il tempo l’obesità fu associata all’ironia beffarda di Gargantua e goffa di Sancho Panza, per subire nel XX secolo una condanna definitiva. Il corpo si scopre, il grasso non è tollerato e grazie alla bilancia la definizione diventa più precisa e oggettiva: mens sana in corpore sano. L’aspetto medico però passa in secondo piano rispetto alla valutazione psicologica, l’obeso è colui che non sa trattenersi, non sa dimagrire e non si adatta ai canoni della società. E da caratteristica delle classi dominanti diventa gogna delle classi dominate, che mangiano male, junk food pieno di zuccheri. Per cui il grasso è malato, ridicolo, con una venatura ribelle, impossibile da riproporre nell’autonarrazione di Instagram. Lo sa bene Pino Calafiore, protagonista del secondo romanzo di Arturo Belluardo, che vive l’umiliazione buffonesca sulla propria adipe.
Dopo lo scoppiettante esordio con Minchia di mare, l’autore si libera di ogni inibizione e si concede una grande abbuffata di lingua e cultura pop in Calafiore (Nutrimenti, p. 208 euro 16).
Pino Calafiore lavora per una banca, in un archivio sotterraneo che è nascondiglio e trappola, luogo di umiliazione e copula con l’orrida Fata Fiatella. A dispetto della pachidermica mole, ha un’avvenente compagna, una figlia non sua, una casa, un cugino trans e quel lavoro che disprezza, ma non intende abbandonare. Eppure già al secondo capitolo del romanzo si capisce che qualcosa nella vita di Calafiore non ha funzionato. Perché lo troviamo prigioniero di una coppia di cannibali, Marta e Federico, che vogliono farselo allo spiedo. Allora, come una Sherazade boteriana, Pino racconta la propria storia per salvarsi e mette in scena una grande apologia della fame che lo caratterizza, sublimata dall’identificazione con i personaggi dei fumetti e da perverse fantasie erotiche con la ministra Lorenzin.
Sì, è vero, Pino confessa, ha mangiato, mangiato senza sosta, si è allenato per battere il record di tramezzini ingurgitati in un quarto d’ora, ha guardato ogni possibile programma di cucina, è stato un devoto di Cannavacciuolo. Ma ora è cambiato, ora ha capito quanto la società sia malata, quanto il mondo sia una grande bocca bulimica, pronta a fagocitare, fare a pezzi e rivomitare.
Calafiore diventa una metafora, neanche troppo sottile, del capitalismo, che divora per essere divorato. Ma il centro del romanzo, il fuoco della narrazione rimane sul corpo e la lingua del corpo. Belluardo non ha peli sulla lingua, esagera, sbrodola, si prende gioco dei ricordi d’infanzia. E crea cicatrici sul corpo di Pino.
Non c’è nessun rispetto per i ciccioni oggi, si tutelano tutte le altre categorie fisiche, persino i nani, dopo Game of Thrones. Ma i cicciobombo, i pacchioni, i grassoni continuano a essere sfottuti. Senza tenerezza e una pacca sul ventre.