Corriere della Sera, 9 maggio 2019
Intervista a Enrique Vila-Matas
TORINO Enrique Vila-Matas è uno scrittore funambolico e iperletterario, grande cantore dell’assenza dell’autore ma della persistenza delle opere. Sabato sarà al Salone del libro di Torino per parlare, anche, del suo nuovo romanzo, Un problema per Mac, in uscita oggi da Feltrinelli nella traduzione di Elena Liverani. Mac, il protagonista, è un grande falsificatore che decide di dedicarsi alla riscrittura del libro di un vicino di casa. Ne esce un gioco di specchi tra letteratura e vita, in cui, come spesso capita con la scrittura di Vila-Matas, naufragare è inevitabile.
Lei ha sempre giocato molto con i generi. Questo, in particolare, è un diario, un saggio, un gioco alla Perec, un racconto. Sembra che faccia di tutto per evitare la cosiddetta «autenticità» che, invece, molti romanzieri inseguono.
«Pensiamo a Don Chisciotte. Ci dice che Alonso Quijano vuole trasformare certe avventure che ha letto in “autentiche”. E ci viene anche detto che per “viverle” non può stare a casa e nel suo villaggio, figuriamoci scrivere romanzi, come era la sua prima intenzione. Che cosa gli succede? Che le finzioni che ha letto lo portano a credere che anche lui sarà in grado di vivere queste avventure. Ma finisce solo per ricrearle con risultati disastrosi. Uno degli aspetti più affascinanti della letteratura è il fatto che l’“autenticità” rimane sempre in uno stato feticistico, non si può mai attraversare lo specchio per incontrarla. In Un problema per Mac tendo a criticare il feticismo dell’originalità e a difendere l’idea che non ci sia progresso o cambiamento nella letteratura ma solo la ripetizione. E sono d’accordo con Kierkegaard quando dice che, quando ricordiamo qualcosa, la ripetiamo all’indietro (il che è triste), mentre la ripetizione stessa è sempre un movimento più creativo e stimolante, perché alla fine consiste nel ricordare in avanti».
Scrivere è, in ultima analisi, riscrivere?
«E perché no? Molte volte mentre scrivevo un racconto o un romanzo ho pensato che in realtà lo stavo scrivendo solo con l’intenzione di riscriverlo qualche anno dopo... Improvvisamente, due anni fa, su suggerimento di un amico, Rodrigo Fresán, sono tornato a un romanzo che avevo scritto nel 1986 (Una casa per sempre, anche se in Un problema per Mac lo chiamo Un problema per Walter), e l’ho completamente riscritto fino a renderlo quasi irriconoscibile».
Lei ha pubblicato il suo primo romanzo nel 1973, e da allora ne ha scritto più di venti. Come si è evoluta la sua scrittura?
«La prospettiva che mi dà il passare del tempo mi fa vedere che dopo l’uscita di Una casa per sempre ho fatto scivolare la scrittura verso nuove formule, come se mi fossi dato a un altro tipo di immaginazione, quella attuale. Nel tempo i temi che si sono imposti al mio lavoro sono la sopravvivenza della letteratura in anni ostili, la tentazione di fuggire e l’anonimato, l’originalità come feticcio o miraggio, l’eco intertestuale sotto forma di riscrittura, la tensione tra avere fede nella letteratura o rifiutarla radicalmente».
«L’attività
della lettura di un testo è una esperienza di costruzione del significato»
È d’accordo con lo scrittore argentino Ricardo Piglia secondo il quale i suoi romanzi ruotano intorno a un’ossessione?
«La lettura è un’esperienza di costruzione del significato. E il grande Piglia sapeva come costruire molto bene quel senso. Ha dichiarato questo in un’intervista con la scrittrice venezuelana Karina Sainz Borgo. In quella stessa intervista, tra l’altro, ha detto qualcosa di molto forte che si spiega in parte con la complicità letteraria che abbiamo avuto. Ha detto che i miei romanzi dovevano essere messi sullo stesso piano di quelli di W. G. Sebald, Claudio Magris, John Berger, quegli autori che narrano il fatto di raccontare e incorporano il saggio, l’autobiografia e gli elementi di avventura in un processo narrativo molto moderno rispetto al romanzo classico».
Nel libro c’è il tema dei libri postumi. Ha una posizione critica su questa che è, anche, una tendenza editoriale?
«L’ho scritto in pochi giorni quando, almeno in Spagna, i libri postumi proliferavano. Volevo giocare con il contrasto: uno scrittore principiante voleva scrivere un romanzo postumo. Mi ricorda una frase di Hegel, che diceva che all’inizio di qualsiasi cosa si vede come finirà».
In questo, come in altri libri, ci sono molti riferimenti letterari, molte citazioni, anche inventate: Borges, Bolaño, Djuna Barnes, Walter Benjamin. Quali sono gli scrittori per lei imprescindibili?
«Una passeggiata tra i miei libri mette involontariamente a disposizione del lettore un canone letterario diverso da quello ufficiale. Ho divulgato Franz Kafka, ma ho anche dato continuità a un classico di Jorge Luis Borges, a Herman Melville e al suo Bartleby, così come a Robert Walser, che ho trasformato in un santo laico, a Georges Perec (di cui ho preso il posto in qualche occasione), a Fernando Pessoa e Witold Gombrowicz, per non parlare del brillante Julio Ramón Ribeyro, o Raymond Roussel e al suo Locus Solus...».
«Girando tra i miei libri si trova un canone letterario lontano da quello ufficiale»
In questo libro c’è la Barcellona della crisi, dei poveri. Come sta la Spagna oggi?
«In Un problema per Mac si dice che c’è una crisi economica che peggiora ogni giorno e che la televisione, tuttavia, essendo controllata dal partito corrotto al potere, il Partito Popolare di Aznar e Rajoy, annuncia che tutto sta andando di nuovo bene. Le recenti elezioni in Spagna hanno ridotto il potere del Partito Popolare, del partito che ha ereditato il franchismo e c’è un certo ottimismo per il trionfo dei socialisti, ma si diffida di qualsiasi gioia improvvisa. A dire la verità, io sono contro tutto».