Avvenire, 9 maggio 2019
Intervista al regista Roberto Minervini
Difficile dire se quelli di Roberto Minervini, marchigiano in Texas, siano dei documentari o qualcos’altro di più difficilmente definibile. Certo è che il suo modo di affondare lo sguardo nella realtà della provincia americana e di restituircela in tutta la sua verità ha ogni volta del sorprendente, a cominciare da The Passage per proseguire con Low Tide, Stop the Pounding Heart e Louisiana, fino al più recente Che fare quando il mondo è in fiamme, in concorso alla scorsa Mostra di Venezia e in arrivo oggi nelle nostre sale distribuito dalla Cineteca di Bologna in una versione rimontata. Al centro del film, ambientato nuovamente in Louisiana, girato in bianco e nero come a sottolineare confini e conflitti, e che ancora una volta coniuga l’osservazione attenta della realtà con la necessaria costruzione di un racconto, ci sono Judy alle prese con la chiusura del suo bar e i fantasmi del passato, i giovanissimi Rolando e Titus impegnati a schivare pallottole nelle strade, gli uomini e le donne delle New Plack Panthers che chiedono giustizia per le morti di Alton Sterling e Philando Castile uccisi dalla polizia, la comunità del Mardì Gras, che celebra il connubio tra indiani e neri d’America accomunati dal medesimo destino di esiliati nella propria terra. Il ritratto di una comunità nera che lotta per sopravvivere in un territorio quotidianamente ferito da violenze, discriminazioni razziali, ingiustizie sociali. Ne abbiamo parlato con il regista che in quel mondo si è calato non senza rischi.Cosa fare allora quando il mondo in fiamme?Come dice Judy con la saggezza del suo vissuto, se sei bianco corri ai ripari e attendi i soccorsi, ma se non lo sei devi aiutarti da solo oppure bruci. Io invece come autore e come cittadino americano sento la responsabilità di essere un testimone oculare. Da qui è partita la voglia di tornare a fare un cinema più esplicitamente politico.Il film riguarda non solo i neri d’America, ma le fasce più povere ed emarginate di qualunque società.Si, il tema che tratto va ben al di là dei confini americani diventando universale. La lotta di classe, esacerbata in Usa dalla questione razziale, parla un linguaggio comprensibile anche in altre realtà.La parola documentario definisce secondo lei i suoi film?Sette anni fa avrei avuto difficoltà a essere identificato come un documentarista, mentre oggi accetto questa definizione con più serenità perché la forma documentaristica si è allontanata da tutti quei paradigmi che l’avevano resa una forma d’arte stagnante. Mi sento vicino a Gianfranco Rosi che sparisce per mesi, si immerge totalmente in una diversa realtà pagando un prezzo emotivo altissimo, come accade anche e Wang Bing, pronto a mettersi completamente in gioco.Come definirebbe più precisamente il suo cinema?Cinema di relazioni. Ogni film presuppone un punto di partenza e un percorso che dura nel tempo ed è il frutto della mia voglia di instaurare delle relazioni significative con persone e luoghi.Come fa a scomparire dal set? E quanto invece gli “attori” sono consapevoli della macchina da presa e dunque impegnati a recitare?L’esperienza mi ha insegnato che certi momenti magici emergono costantemente, basta essere molto accorti nell’osservazione. Io esisto unicamente con la macchina da presache non rappresenta più un’interferenza tra me e gli “attori” perché fa parte del mio corpo. La mia presenza potrebbe essere d’intralcio – e in alcuni momenti lo è – ma anche un potente alleato perché la catarsi dei personaggi abbia luogo. La scena in cui Judy rivela gli abusi subiti è un esempio lampante della simbiosi tra me con la macchina da presa e lei. Quella scena poi è la conseguenza di scene precedenti in un crescente tsunami emotivo. È proprio questo l’aspetto autogenetico dei miei film: gli eventi si concatenano naturalmente grazie a un costante flusso emotivo. Quando giro, la macchina da presa è accesa per molto tempo senza interruzioni. Ogni tanto scatta il “momento performance”, che è un meccanismo di difesa anche necessario, accade che gli “attori” guardino nell’obiettivo, che si interrompano. Ma io lascio che tut- to fluisca sapendo che quando le riprese durano a lungo le difese si abbassano, la performance scema e gli sguardi in macchina diventano insignificanti.Quindi il montaggio diventa fondamentale.Il mio intervento maggiore è proprio in fase di montaggio, quella è la mia scrittura che scorpora diversi momenti per raccontare più storie.In che modo guida i suoi attori sul set?Non c’è regia, ma ci sono degli standard di qualità ai quali non rinuncio. Pur lavorando con la luce naturale, ad esempio, giro solo quando le condizioni sono ottimali, il che implica la scelta del posto dove riprendere.Lavorare con dei ragazzi complica le cose?Divento una figura quasi paterna per loro e questo ha delle grosse ripercussioni nel tempo. Cambiano il senso di responsabilità e il livello di attenzione che dedico a loro. Il più grande dei due ragazzi ad esempio, Ronaldo, è stato recentemente arrestato per un furto minore, e ora deve vedersela anche come me, perché davanti alla macchina da presa aveva assicurato che non avrebbe mai commesso un crimine.La polizia americana ha mai cercato di fermarla?Sono piuttosto esperto e informato, conosco le precauzioni da prendere affinché non mi arrestino per poi appropriarsi del girato, che è il loro obiettivo. La polizia però mi ha identificato subito, conosce il mio nome, la mia casa di produzione e ogni tanto ricevo telefonate dalla Sicurezza Nazionale alle quali non rispondo. Immagino di essere sotto sorveglianza in quanto strano oggetto non identificato che fa da link tra la società dei bianchi e certi estremismi neri.Non ha voglia di girare in Italia?Ci penso spesso, mi piacerebbe tornare alla mia terra di origine, le Marche, nel mio paesino irriconoscibile dopo che l’artigianato è fallito e il tasso di disoccupazione ha raggiunto picchi altissimi. Vorrei un giorno ripartire da lì.