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 2019  maggio 08 Mercoledì calendario

La Biennale dei record

Attraverso la lente della storia le questioni irrisolte della democrazia americana potrebbero essere il pezzo forte di questa 58ª Biennale Arte. Al centro del Padiglione Usa la scultura di Sally Hemings, la donna schiavizzata da cui il presidente Thomas Jefferson ebbe cinque figli è parte dell’opera dell’afro-americano Martin Puryear «Liberty / Libertà». In discussione in laguna le categorie di pensiero esistenti, ha dichiarato il curatore americano Ralph Rugoff a proposito della 58ª Esposizione Internazionale intitolata «May You Live In Interesting Times». Spingendoci «a guardare con sospetto a tutte le categorie, i concetti e le soggettività che sono date per indiscutibili». La Biennale ci rassicurerà o solleverà i veli delle contraddizioni in cui viviamo? Lo sapremo solo vivendo, i primi dati assicurano l’indotto: c’è già il tutto esaurito nei giorni di vernice. Da oggi fino venerdì aprono, prima alla stampa e agli addetti ai lavori, la mostra internazionale al Padiglione Centrale, i 90 Padiglioni nazionali (numero record e per la prima volta ci saranno Ghana, Madagascar, Malesia e Pakistan) – 30 ai Giardini e 30 all’Arsenale – e il resto, insieme a una miriade di mostre e ai 21 eventi collaterali, disseminati in tutta la città. A Venezia per la Biennale ci viene il mondo intero: nelle prime due notti di preview il 90% delle camere è prenotato e nel centro storico la media sale al 93%, fanno sapere dall’Associazione veneziana degli albergatori e da oggi giorno di preapertura le prenotazioni salgono al 97%. L’11 maggio l’apertura al pubblico per concludersi il 24 novembre.
L’arte sostiene tutto. Con un’incidenza dei ricavi propri sul valore della produzione del 49% nel 2018, del 50% nel 2017, del 42,55% nel 2016, del 54,21% nel 2015 e 53,56% nel 2014, si capisce che l’equilibrio economico della Fondazione La Biennale di Venezia su base biennale – cui corrisponde nel patrimonio netto la destinazione a riserva dell’utile di esercizio – sta nella forza della Biennale Arte, che cade negli anni dispari, mentre nei pari la Biennale Architettura. La forza economica dell’Arte è così in grado di costruire un tesoretto per il proseguimento degli appuntamenti successivi come Architettura, Cinema, Teatro, Danza e Musica. Nel 2017 la Fondazione ha chiuso i conti con un utile netto che ha sfiorato i 4,4 milioni di euro dopo aver accantonato al fondo rischi 900 mila euro in relazione alla sentenza della Cassazione sull’assoggettabilità della Biennale all’Irap. Il risultato finale è stato accantonato a riserva, che a fine esercizio ammontava a 5,7 milioni, per fornire copertura alle eventuali perdite future. 
Quest’anno si parte con 2,9 milioni in cascina, 2 raccolti dagli sponsor e 900mila dai donor (erano 6.2.57.000 euro in totale nel 2018) e 18.904.000 euro di finanziamenti pubblici, dal Mibact, dalla Regione Veneto e da altri enti minori (erano 18.985.000 euro nel 2018). Vedremo se i visitatori che giungeranno in Biennale, finora sempre in crescita e giunti a 615mila nella Biennale Arte del 2017 (+23% sul 2015 e +207,5% sul 1999) accorreranno con la stessa affluenza. 
Al di là dei numeri si preannuncia una Biennale piena di sculture, installazioni, tessuti, video e performance: faremo nuove scoperte nei padiglione delle nazioni periferiche del mondo e troveremo artisti established nei padiglioni del mainstream e dell’Esposizione Internazionale. Qui sono 79 gli artisti chiamati a interpretare con produzioni ad hoc – grazie all’intervento di gallerie, collezionisti e fondazioni -i tempi interessanti, tema scelto dal curatore Rugoff, attuale direttore della Hayward Gallery di Londra. Un numero inferiore di artisti rispetto ai suoi predecessori: 120 nel 2017 da Christine Macel visitata da 615.152 persone e 136 dal compianto Okwui Enwezor vista da 501.502 visitatori. Gli artisti sono tutti viventi – si va dal più giovane, il 29enne lituano Augustas Serapinas sino al 79enne Jimmy Durham, appena insignito Leone d’oro alla carriera: 15 artisti sono under 35 anni e 32 under 40. Provengono da 38 paesi – per la maggioranza Europa, Asia e America (solo 6 dall’Africa e due dall’Oceania) e la maggioranza è donna, confermando un trend curatoriale e anche di mercato che rivaluta l’arte al femminile. Ma a ben guardare, al di là del paese di nascita, moltissimi artisti sembrano aver introiettato punti di vista che conducono all’America. In un momento in cui l’egemonia degli Stati Uniti sul palcoscenico mondiale si sta erodendo rapidamente 17 artisti sono nati negli Stati Uniti, Cina e Francia ne hanno sei ciascuno e tre Germania, India, Giappone, Corea del Sud e Regno Unito. Ma al di là del borgo natio, è importante scoprire dove lavorano. E sebbene la mappa disegnata da Rugoff si muova su diversi territori lontani dai centri dell’arte, si scopre però che non meno di 26 dei 79 artisti invitati – circa un terzo – lavorano negli Stati Uniti che domina dietro le quinte l’”industria dell’arte”. Con un po’ di sorpresa c’è poi la Germania, che sebbene abbia solo tre artisti nativi, ne conta 14 che hanno scelto Berlino come hub dei loro studi d’artista. 
E l’Italia? Solo Ludovica Carbotta e Lara Favaretto sono le italiane invitate nel Padiglione Centrale della mostra di Rugoff. Per trovare gli altri italiani dovremo allungarci al Padiglione Italia alle Tese delle Vergini: Enrico David, Chiara Fumai e Liliana Moro sono protagonisti della mostra «Né altra Né questa: La sfida al Labirinto» curata da Milovan Farronato realizzata con il contributo di 1.276.620 euro, di cui 600mila dalla Direzione Generale Arte e Architettura contemporanee e Periferie urbane, il resto di sponsor e donor raccolti dal curatore. Come scrive Angela Vettese su questo giornale la Biennale di Venezia è l’unica struttura per l’arte contemporanea del nostro paese riconosciuta nel mondo. «Nata nel 1895 è la nostra sola voce riconoscibile, nel brusio di altre mostre periodiche nate dopo di lei». Tanto lustro, ma poco sostegno: come mai non riesce a raccogliere più risorse come auspicato dalla Corte dei Conti? Forse investire su politiche fiscali per attrarre gli investimenti privati potrebbe essere la strada per dare respiro all’arte contemporanea che tanto ci fa belli.