la Repubblica, 8 maggio 2019
Cosa c’è alla Biennale 2019
Nella sua autobiografia Goethe racconta di essersi visto passare accanto se stesso sopra un cavallo. Il curatore della Biennale, Ralph Rugoff, ha forse avuto la stessa esperienza avendo deciso di sdoppiare la sua mostra creandone due versioni, una nel Padiglione centrale dei Giardini e un’altra con i medesimi artisti alle Corderie. Facendo una Biennale gemellare Rugoff è come se mettesse fra il suo nome ed il suo cognome una “e” come fece Alighiero Boetti nel 1967 per sottolineare che dentro di noi esistono due anime. Ralph e Rugoff hanno chiesto a ogni artista di fare lo stesso, presentando due opere per ognuna delle due sedi.
L’artista in competizione con se stesso. Le proposte A e B. Rugoff ha corso un rischio che si rivela spesso reale. Molti artisti infatti finiscono per presentare lavori di serie A in un posto e lavori di serie B in un altro. Quella che sulla carta appariva una buona idea, riducendo il numero degli artisti a soli 79 e facilitando così la vita del visitatore, si rivela spesso un boomerang obbligandoci a un continuo confronto e inutile sforzo di memoria.
Rugoff non ha avuto vita facile in un momento in cui la caccia alla sua specie, che è anche la mia, maschio di mezz’età, bianco, eterosessuale e pure americano, è aperta 365 giorni l’anno. Gli vanno allora riconosciuti due meriti. Aver selezionato più donne che uomini e aver invitato solo artisti viventi, anche se non tutti hanno la stessa vitalità. Meriti un po’ vanificati aprendo la sezione alle Corderie con un enorme dipinto di George Condo, beniamino del mercato e pure lui socio dello stesso club di maschi.
Il titolo della mostra è un augurio preso in prestito da una frase attribuita a Mao, May You Live In Interesting Times ( Che tu possa vivere in tempi interessanti: dall’11 maggio al 24 novembre). Sicuramente viviamo un tempo molto interessante che non vuol dire né bello né brutto, ma dove le contraddizioni e le trasformazioni spingono a riconsiderare molte cose a partire dall’arte. Un arte che in questa Biennale, altro merito del curatore, mostra la propria angoscia davanti a una realtà che le chiede di essere qualcosa di altro e di diverso da come è stata per tanto tempo. Obbligandola a confrontarsi e a sfidare campi che non sempre le appartengono: tecnologia, politica, cronaca, intrattenimento. Un’arte avvolta in una nebbia come quella che Laura Favaretto fa scendere leggera dal timpano del Padiglione centrale ai Giardini. Quando la nebbia si dirada, in molti casi sia ai Giardini che alle Corderie l’arte si ritrova fra le braccia di una fantascienza molto vicina al presente.
Se potessi, intitolerei la Biennale 2019 Fricassea nello Spazio. La fricassea è un piatto gustoso a base di carne ma è anche un piatto un po’ confuso e per assaggiarlo bisogna avere curiosità e non essere sospettosi. Armarsi di curiosità è il consiglio che do a chi verrà a Venezia. La fricassea del padiglione centrale è meno saporita di quella delle Corderie. Ci sono più ossa che carne. O ci sono sale come quella del piano nobile del Padiglione con un miscuglio di pittori e scultori – Julie Merethu, George Condo, Henry Taylor, Nairy Baghramian, scultura al centro e il Leone D’oro alla carriera di questa edizione Jimmie Durham, con un pezzo di marmo nero serpentino con tanto di ramanzina su quanta fatica e ingiustizie ci sono volute per portarlo a Venezia – che lasciano un retrogusto amaro e fanno andare il boccone di traverso. Altre sale rivelano la tendenza di Rugoff al cerchiobottismo. Il colpo al cerchio del mercato è quello con due pittrici e una scultrice molto gettonate dal collezionismo: Njideka Akunyili Crosby, quadri molto piacevoli e colorati ma anche densi d’implicazioni razziali; Avery Singer, tele in bianco e nero e Carol Bove, sculture colorate e aggressive. Il colpo alla botte della politica e della cultura dell’intrattenimento è nella sala dell’americano Kahlil Joseph, con un’opera come un programma televisivo che mette in crisi il concetto che gran parte degli spettatori possono avere dell’arte ma che funziona molto bene.
Tornando alle Corderie, le pareti di legno compensato fanno un po’ “vorrei Koolhaas ma non posso”, appesantendo il monumentale spazio. Qui gli ingredienti della fricassea sono più chiari e alcuni squisiti tipo la stanza del cinese Liu Wei con enormi sfere che sembrano a metà fra un Morandi o un Magritte fatto da un marziano. O il video di Alex Da Corte, uno dei giovani più interessanti della sua generazione, dove Biancaneve, Paperino o Bart Simpson s’intrecciano con icone reali tipo Statua della Libertà, creando un racconto fresco e vivace. Abbiamo iniziato citando Boetti.
Concludiamo citando Mario Merz ed il suo igloo di Giap che porta sopra la scritta in neon: «Se il nemico si concentra perde terreno, se si disperde perde forza».
Ralph Rugoff ha tentato forse l’impossibile. Concentrare gli artisti e guadagnare terreno. Diventando forse il nemico di se stesso. Ma fare una Biennale, direbbe l’omino Bialetti, sembra facile ma non lo è.