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 2019  maggio 08 Mercoledì calendario

Ritratto della Lettonia

La signora Yang Xuqin non ne aveva mai sentito parlare. Ora gestisce un elegante negozio di tè nel centro della capitale. «Sono arrivata con mio marito, un manager svizzero, da Singapore: mai avrei immaginato che qui potesse fare così freddo d’inverno».
Wang Yuhua è il proprietario del ristorante cinese «Hong Kong», forse il migliore in città: «Quando un amico me l’ha suggerita come un’ottima meta per gli affari, l’ho dovuta cercare sulla mappa».
Chen Jian, insegnante di mandarino e vice segretario dell’Associazione dei cinesi in Lettonia, ha ritrovato a Riga il clima rigido della sua Harbin: «Mi è sempre piaciuto viaggiare. Certo non credevo che avrei chiamato casa un posto così lontano».
La Lettonia nuova frontiera d’Occidente, Terra Promessa per imprenditori, uomini (e donne) d’affari della Repubblica Popolare che attraversano il continente euroasiatico per ricominciare da zero. Ma non solo. Il Paese Baltico – che oltre a far parte dell’Unione Europea è anche membro della Nato – punta a diventare uno dei poli terminali della Nuova Via della Seta, la cosiddetta Belt and Road Initiative (Bri) che tante apprensioni, e critiche, suscita in Occidente (salvo correre a firmare contratti miliardari a Pechino).
Già un treno porta container arriva da Xi’an, in Cina, al porto di Riga, ogni 72 ore, con il suo carico di merci destinate alla distribuzione nel Nord Europa. «Le nostre infrastrutture (terminal, porto, linee di collegamento) sono le più adatte – spiega Andris Ozols, direttore generale della Agenzia governativa per gli investimenti e lo sviluppo – per raggiungere rapidamente i Paesi dell’area baltica e oltre: cercheremo di sviluppare sempre di più questa nostra eccellenza».
Lungo il fiume Per comprendere a cosa si riferiscano le parole di Andris Ozols, basta entrare nel gigantesco porto di Riga, costruito lungo 15 chilometri su entrambe le sponde del fiume Daugava, poco prima che le sue acque rugginose, una volta attraversata la capitale, si gettino nel Mar Baltico. Tra pareti di container, affastellati uno sull’altro a formare un labirinto in perenne movimento, si spostano giganteschi trattori-gru che, a colpo sicuro, si piazzano di fronte al cassone da rimuovere, lo agganciano e lo sollevano in pochi secondi. «Gli operatori – spiega Viktorija Upeniece, bionda funzionaria dell’autorità portuale – sono guidati da un computer di bordo: non possono sbagliare». Dieci ore al giorno al volante, i container trasferiti come borse della spesa da un lato all’altro del porto: vengono prelevati dai camion, dai vagoni di un treno, da piazzole che mutano continuamente forma. «In meno di quattro ore – dice ancora Inga osservando una nave ormeggiata in banchina – quella porta-container potrà prendere il mare».
Gli ideogrammi Di scritte cinesi, in porto, se ne vedono poche. Eppure le relazioni commerciali tra Lettonia e Repubblica Popolare sono destinate a crescere. Fino a che punto? «Al momento – ragiona Ozols – il nostro interscambio con Pechino non arriva a 700 milioni di euro, una sciocchezza se paragonato a quello dell’Italia (circa 50 miliardi di euro, ndr). Siamo un piccolo Paese, dobbiamo darci da fare nei settori dove siamo più capaci, come i servizi, appunto».
Ma questo «darsi da fare», dall’adesione alla Nuova Via della seta, al memorandum siglato proprio da Ozols con la città di Ningbo per un polo di e-commerce (26 aprile) da realizzare nel porto di Riga, non rischia di rendere la Lettonia in qualche modo «dipendente» da un Paese, la Cina, con il quale i paragoni non sono possibili, data la sproporzione di popolazione e capacità produttiva? Il ministro degli Esteri Edgars Rinkevics ci accoglie in una saletta al piano terra del palazzo neoclassico dove ha sede il suo dicastero. Alle pareti i ritratti dei (pochi) predecessori – considerato che il Paese è stato indipendente dal 1918 al 1940 e, finalmente, dal 1991 – osservano questo politico dinamico che parla inglese con scioltezza, lasciando il russo, per secoli lingua franca in quest’area del mondo, nel cassetto. «Dal nostro punto di vista – dice al Corriere – non ci sono assolutamente ragioni per preoccuparsi. I nostri rapporti con la Cina rispettano perfettamente i parametri dell’Unione Europea e non mettono certamente in discussione la nostra appartenenza all’Occidente. Facciamo affari con molti Paesi, cerchiamo di diversificare le opportunità per crescere economicamente. A essere del tutto sincero, mi sembrano molto più problematiche le polemiche commerciali tra i due lati dell’Atlantico».
La Lettonia: meno di due milioni di anime sparse su un territorio di 65 mila chilometri quadrati (come Lombardia, Piemonte e Liguria messe insieme); la più grande città dei tre Paesi Baltici, Riga, con un centro storico restaurato e curato con passione quasi svizzera e una periferia che qua e là mostra, sotto le facciate rifatte, i tratti grigi e imperiosi dell’architettura sovietica; una lingua nazionale, il lettone, che si interseca con il russo quotidianamente (a Riga i russofoni sono il 50% dei residenti). Un’economia che si basa ancora sulle risorse naturali: legname, soprattutto, ma anche l’oro nero locale: i mirtilli, capaci, grazie alle entrate garantite dall’esportazione di gran parte della produzione, di «cambiare la vita a tante famiglie nelle campagne», sorride Andris Ozols.
In città, le questioni che occupano il governo al momento ricordano molto certe dinamiche del Sud Europa: come fermare i giovani che preferiscono andare a cercare fortuna all’estero (soprattutto a Londra, Brexit permettendo). Come trovare un’occupazione all’altezza delle speranze di ottimi laureati (economia e high-tech in particolare) che conoscono – per storia e disposizione culturale – il meglio di due mondi che da sempre si amano e si odiano al tempo stesso: l’Occidente e la Russia. «È proprio qui – ci dice Grigory “Gary” Luchansky, vicepresidente dell’Associazione internazionale degli imprenditori, sorta di Confindustria dei Paesi post-sovietici – che Cina e Lettonia possono trovare un punto di contatto e benefici reciproci: abbiamo una gioventù iperspecializzata ma un’elevata disoccupazione da una parte; parchi industriali ex sovietici in sonno dall’indipendenza che non aspettano altro che di essere riaperti e modernizzati, dall’altra. Noi siamo la porta ideale dell’Europa per un Paese, la Repubblica Popolare, che cerca di differenziare gli accessi per i suoi prodotti».
I circoli ex sovietici Qui occorre fermarsi un secondo e spiegare con chi stiamo parlando. Gary Luchansky è un uomo d’affari molto noto internazionalmente. Difficile incontrarlo di persona (lo abbiamo intervistato via email): anni fa è finito sulle prime pagine di giornali e riviste di gran parte del mondo per un suo presunto ruolo nel riciclaggio di denaro tra Russia e Occidente. Qualcuno lo ha anche collegato a «circoli» vicini all’Fsb, l’ex Kgb, di cui avrebbe fatto parte lui stesso. Comunque sia, dello sviluppo della Lettonia dall’indipendenza in poi sa tutto, anche se raramente torna a Riga. «Mi divido tra Londra, Vienna, Mosca e la Cina – spiega —. Nel mio ruolo di vicepresidente dell’International Congress of Industrialists and Entrepreneurs (creata a Mosca nel 1992, ndr) il mio compito è proprio di sviluppare le relazioni commerciali tra i Paesi post-sovietici e la Cina».
In questo, come abbiamo visto, la Lettonia – parte del Gruppo di 16+1, sorta di consorzio dei Paesi est-europei nelle trattative con Pechino – è in prima fila, se non in vantaggio: il grande porto sul Baltico, certo; ma anche i binari con identico scartamento rispetto a quelli russi (tempo guadagnato per i treni che attraversano la Siberia arrivando dalla Cina: non devono cambiare carrelli); e grande spazio per lo sviluppo, spazio che nell’Europa Occidentale e Meridionale si è ristretto di molto.
Nel ristorante di Wang Yuhua incontriamo il signor Han. Sta pranzando (anche se è pieno pomeriggio) ma risponde (a fatica) a qualche domanda. Lui è un manager commerciale della Zte, uno dei colossi cinesi di sistemi per la telecomunicazione con sede a Shenzhen. È qui per fare affari, naturalmente. Ma non dice di più. Lui tornerà a casa tra pochi giorni. «Noi invece – sorride Wang – la casa l’abbiamo trovata qui. Mia moglie è lettone. Nostro figlio è nato a Riga e si sente integrato al cento per cento. Con lui parlo in russo, in lettone e un po’ anche in cinese». Wang rappresenta un’avanguardia: «Sono arrivato a Riga vent’anni fa, quando i cinesi qui erano pochissimi e si conoscevano tutti. Ora siamo molti di più, anche perché il governo locale garantisce un permesso di residenza di cinque anni a chi acquista un immobile: molti, tuttavia, hanno approfittato di questa possibilità per poi raggiungere altre destinazioni in Europa».
Wang Yuhua, Yang Xuqin, Xia Xiaolei e tanti altri giunti dal lontano Oriente: loro hanno trovato qui la Terra Promessa, un po’ fredda e buia d’inverno, certo: «Ma volete mettere? Qui la criminalità è al minimo, e le possibilità infinite».