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 2019  maggio 07 Martedì calendario

ROMA, E SE ALLA FINE RESTASSE RANIERI? CONTE SILURA L’IPOTESI GIALLOROSSA: "OGGI LE CONDIZIONI NON CI SONO MA PENSO CHE UN GIORNO, PRIMA O POI, ALLENERO’ LA ROMA" - "SE TORNO E’ PER VINCERE. CHI MI VUOLE SA CHE DEVO INCIDERE CON LE MIE IDEE. LE MILANESI? VALE PER TUTTI - JUVENTUS LOGORANTE. TORNARCI? PENSO CHE SIANO MOLTO CONTENTI DI ALLEGRI. UN DOMANI NON SI SA MAI…” -

Si capisce che Antonio Conte per il calcio ha un amore totale, una passione quasi febbrile. Conte, come e dove inizia? «È mio padre che ne ha merito. Lui è stato il presidente di una squadra storica della mia città: la Juventina Lecce. Era un po' tutto. Era presidente, allenatore, magazziniere. Portava le maglie, le lavava a casa, preparava il té per i ragazzi. Il mio primo ricordo di calcio è associato a papà e alla Juventina Lecce. Per lui era una vera passione. Fin da quando ho iniziato a camminare mi portava a vedere le partite. Aspettavo la domenica come un giorno di festa, il mio preferito. Sono cresciuto a pane e pallone, e non ho mai smesso».

Di che colore aveva la maglia? «La maglia della Juventina Lecce era bianconera». Vede che era scritto nel destino? «Può essere... Sicuramente la mia famiglia era tifosa del Lecce e della Juve».

Suo padre che lavoro faceva? «Noleggiava automobili e portava con il pulmino i bimbi a scuola».

E sua mamma? «La sarta a casa. Ricordo bellissimi abiti da sposa fatti a mano. Era bravissima. Ogni tanto però mi prendevo qualche ceffone perché, con il pallone, ero capace anche di sporcare il bianco candido dell' abito da sposa».

Che pallone era? «Palloni che adesso qualunque bambino rifiuterebbe. Di cuoio, quel cuoio con le cuciture in bella evidenza. Dopo un po', per la troppa usura, usciva fuori la camera d' aria rosa. Papà li teneva con amore, li curava con il grasso. Insomma li trattava come dei figli in modo che durassero di più. Anche perché costavano parecchio». Lei inizia nelle giovanili del Lecce... «Ho fatto la trafila nella Juventina e poi a mio papà i responsabili del Lecce chiesero se potessi fare un provino. Papà non era favorevole, per lui la priorità della vita era lo studio. Il football, nonostante la sua passione, veniva dopo. Aveva paura che il calcio mi potesse distrarre. Avevo dodici anni e lui mi disse: "Antonio, voglio esser chiaro: la prima volta che a tua madre, ai colloqui con gli insegnanti, dicono qualcosa di negativo sul tuo profitto, tu hai chiuso con il pallone". Da lì in poi ho sempre abbinato campi di calcio e libri di studio, anche per dare soddisfazione della mia famiglia. Ho faticato, mai rimandato e mai bocciato, ma alla fine mi sono laureato in Scienze motorie con 110 e lode a Foggia. È stato un percorso parallelo che ho voluto sempre continuare».

La collezione di figurine Panini la faceva? «Non chiedevo i soldi a mamma e papà per comprarle. Non mi hanno mai fatto mancare nulla, ma non navigavamo nell' oro. In quel periodo, se eri bravo, le figurine te le facevi. Magari compravi le prime, ma poi giocavi con gli altri e, se eri sveglio, potevi vincerne. Mi viene nostalgia nel pensare a quegli album che non riuscivo mai a finire...». Poi è diventato lei stesso una figurina «Ti senti calciatore quando finisci sulla figurina. Quello è veramente il primo traguardo. Non erano i soldi, era avere la propria foto da incollare. Allora ti sentivi davvero un calciatore. Io i primi soldi del calcio li ho iniziati a prendere con la Primavera del Lecce. Se vincevi ti davano trentamila lire, se pareggiavi quindicimila. Con quelli ho comprato la Vespa 125, di seconda mano. E dopo un Suzukino, con il denaro del primo contratto con il Lecce».

L' arrivo a Torino, alla Juve come fu? «Erano venuti a vedermi Vycpàlek e poi Sergio Brio. A novembre ebbi due proposte, dalla Roma e dalla Juventus. Ma poi mi chiamò Boniperti per dirmi: "Devi venire alla Juve, passami la mamma". Lei era molto riservata, insomma non voleva parlargli. Voleva rassicurarla che a Torino avrei trovato un' altra famiglia...».

Passare da Lecce a Torino non dovette esser semplice «Arrivai a novembre del '91 alla Juve. L' impatto fu traumatico. Ricordo che ero in albergo ad aspettare il dottor Agricola per fare le visite mediche. C' era una nebbia che non si vedeva a un metro e per me, che venivo dal sole e che fino a ottobre andavo al mare, fu un trauma. Il primo anno alla Juve fu difficile per il clima, per tutto. Io davo del lei a tutti i giocatori, non riuscivo a dar loro del tu: per me erano idoli visti nelle figurine. Ritrovarmi accanto a Baggio, Schillaci, Julio Cesar mi sembrava un sogno. Al presidente davo anche del voi, perché da noi, al sud, il voi è superiore al lei».

Lei arriva ad allenare la Juve, che aveva finito 7 a in classifica, e le fa vincere 3 scudetti di seguito «È stata l' unica volta in cui mi sono proposto a una squadra. Mi sono proposto ad Andrea Agnelli. Avevo fatto bene a Bari. A Siena stavo per vincere il campionato di B. Un collega, Silvio Baldini, mi dice "Antonio, vuoi allenare la Juve? Devi fare come Guardiola, che si è presentato al presidente del Barcellona per chiedergli la squadra. Parla con Agnelli". Io pensai fosse matto, però l' idea mi restò in testa. Alla fine feci un lungo colloquio con Andrea. Gli dissi: "Il calcio di oggi si gioca con intensità. C' è la possibilità di entrare subito in Champions, ma bisogna riportare determinati valori. Il primo, per me, è il senso di appartenenza. Il giocatore non si deve mai sentire di passaggio, deve pensare di poter scrivere la storia della sua squadra". Ho fatto questo discorso ad Andrea, uomo di vedute coraggiose. Ero entrato con zero chance. Uscii che le mie quotazioni si erano alzate...».

E fu nominato. «La Juve veniva da un periodo difficile e infatti si fece piazza pulita. In questo mi aiutò molto Paratici. Volli parlare con tutti i giocatori. La rosa era buona. Ma Fabio mi avvertì: "Ci sono dei problemi, proprio per quel senso di appartenenza che per te è così importante". Aveva ragione. Mandammo via tanti giocatori, anche di spessore. Arrivarono Pirlo, Vidal, Lichtsteiner, Vucinic, Giaccherini».

Giocatori che a lei piacevano per la motivazione, oltre che per la qualità, come Pirlo «Andrea era stato scaricato dal Milan. Quello che mi colpì fu la sua serietà durante gli allenamenti. Erano duri, all' inizio. Volevo mandare un segnale chiaro a tutti. Volevo dire subito che solo attraverso il sacrificio, l' impegno e facendo più delle altre squadre avremmo potuto tornare in Champions. E Andrea fu un esempio: non diceva mai una parola, sempre concentrato e disponibile. Questo metteva chiunque volesse lamentarsi per la fatica nella condizione di non poterlo fare».

Quale fu la scelta tattica? «Io ero partito con un' idea di fare un 4-2-4. All' inizio giocammo così, i due centrocampisti erano Pirlo e Marchisio. C' è stata poi una lenta metamorfosi e arrivammo al 3-5-2, poi è diventato il marchio di quella Juve. Durante la prima partita col Parma cambiai e feci entrare Vidal. Così diventò un 4-3-3 e vincemmo 4-1. Un allenatore deve essere duttile, mai ideologico. Noi dobbiamo essere bravi in questo, tenendo a mente che ci sono dei principi e devi avere un' idea.

Perché quando si dice che i moduli sono solo numeri si dice una cosa sbagliata. Ogni sistema ha un' idea dietro, ci sono giocate memorizzate, c' è la fase offensiva, la fase difensiva, la fase di conquista, c' è la decisione di andare a pressare alto, basso... Alla Juventus si creò un' alchimia unica tra tutti. Ci si dimentica che il primo anno finimmo imbattuti e il terzo siamo arrivati a fare il record di 102 punti. Oggi la Juve, che pure ha fatto un campionato straordinario, non potrà eguagliare quel risultato».

Il calcio è arte o scienza? «È un mix. Bisogna incorporare ogni cognizione scientifica, ogni contributo medico o tecnologico. Allo stesso modo è centrale il talento, la dimensione creativa dell' organizzazione del gioco come del gesto dei singoli. Arte e scienza, insieme».

Perché negli otto anni di scudetti, né nel ciclo suo né in quello di Allegri, la Juventus riesce a vincere in Champions? «Parliamo di cicli totalmente diversi. Io prendo una Juve non protagonista assoluta, anzi scomparsa dalla Champions. Avevamo giocatori buoni con poca esperienza, tranne Pirlo, in Champions. Di qui i risultati. Il Chelsea era arrivato 10°, non aveva partecipato neanche all' Europa League. Abbiamo vinto la Premier e l' anno dopo fatto la Champions. Passato il primo turno, siamo usciti con il Barcellona. Cicli diversi. In quegli anni si faceva di necessità virtù. Non mi è mai capitato di prendere una squadra ai vertici. Sono sempre partito da situazioni difficili e sono riuscito a conquistare la vetta. La Juve oggi è cresciuta. La struttura è al livello delle prime 3-4 del mondo».

Cosa pensa dell' eliminazione della Juve con l' Ajax? «La Champions non è il campionato. Il campionato di solito lo vince la squadra più continua.La Champions spesso è decisa da partite alle quali arrivi nel momento giusto o nel momento sbagliato. Un infortunio in più, in meno, palo-rete, palo-fuori.

Detto questo può esserci sempre la sorpresa nel percorso. Come l' Ajax. Ci sono squadre più forti, parliamoci chiaro. L' Ajax ha undici giocatori effettivi, nella fase di possesso e nella fase di non possesso. Giocatori che hanno entusiasmo, voglia di correre con e senza palla, di andare in avanti, difendersi in avanti e non in braccio al portiere. E occhio al calcio inglese: abbinano mezzi economici a una nuova cultura tecnica. L' avvento di tanti allenatori stranieri ha travolto la vecchia mentalità che sottovalutava l' aspetto tattico. Che ora si sposa con l' ardore e l' intensità inglese».

Perché lei decise all' improvviso di andare via dalla Juve? «Erano stati tre anni molto intensi, avevamo portato la macchina a spingere più di quanto potesse. Anni molto logoranti, sotto tutti i punti di vista. Penso che anche nelle migliori famiglie si possa litigare. In quei tre anni ho dato tutto me stesso. Come ho fatto ovunque sia andato. Mi sentivo in debito con Agnelli. Ricordo la promessa fatta: "Ci vorrà tempo, ma l' obiettivo è tornare sul tetto del mondo". Non sono riuscito a completare la promessa».

E tornerebbe un giorno per completare questa promessa? «I matrimoni, per esserci, devono essere da ambedue le parti. Penso che la Juve abbia iniziato un percorso e penso che siano molto contenti di Allegri che sicuramente ha continuato il lavoro, sta facendo molto bene. Un domani non si sa mai».

Una società che voglia Conte cosa deve proporgli? «L' esperienza che ho fatto all' estero mi ha reso più forte e completo. La consiglierei a qualsiasi allenatore italiano. È dura, però ti migliora. Oggi se qualcuno mi chiama sa che io devo incidere, con la mia idea di calcio e con il mio metodo. Non sono un gestore, non credo che l' obiettivo di un allenatore sia fare meno danni possibile.

Se pensano questo, le società non mi chiamino. Trovo umiliante per la categoria sentire una cosa del genere. Io voglio incidere, perché sono molto severo con me stesso. Poi ho un problema: la vittoria. Che sento come l' obiettivo del mio lavoro. Il percorso per arrivarci è fatto di lavoro, di sacrificio, di unità d' intenti, di pensare con il noi e non con l' io.Non ne conosco altri».

Vale anche per Inter o Milan? «Vale per qualsiasi squadra. Io devo avere la percezione di poter battere chiunque. Devo sentire che vincere è possibile. Altrimenti, senza problemi, posso continuare a restare fermo».

I tifosi della Roma sognano Totti presidente e Conte allenatore. Rimarrà un sogno? «Mi sono innamorato di Roma frequentandola nei due anni in cui sono stato c.t. della Nazionale. All' Olimpico senti la passione da parte di questo popolo che vive il calcio con un' intensità particolare, che per la Roma va fuori di testa. Che vive "per la Roma". Un ambiente molto passionale, che ti avvolge. Oggi le condizioni non ci sono ma penso un giorno, prima o poi, io andrò ad allenare la Roma».

La squadra e il giocatore che l' hanno fatta innamorare? «L' urlo di Tardelli, un riferimento per me. Un tuttocampista con cuore, grinta, cervello, capacità realizzative. La squadra che mi è rimasta nel cuore è l' Italia dell' 82. Ci fece innamorare, andò oltre i propri limiti contro l' Argentina, il Brasile. Fece capire, anche a me che ero un ragazzino che la guardava in tv, che niente è impossibile. Se hai idee, credi nel tuo lavoro e ci metti tutto te stesso».